Norme & Tributi

Questione salariale: una sfida aperta

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le parti sociali

Questione salariale: una sfida aperta

Ormai è chiaro: in Italia esiste una nuova questione salariale. I contratti hanno svolto egregiamente il loro compito, ma è evidente che se il 40% dei lavoratori al Sud guadagna meno del reddito di cittadinanza fissato a 780 euro c’è un problema. Del resto, il suo stesso inventore, Pasquale Tridico, ha preannunciato una nuova rincorsa salariale come effetto collaterale voluto.

Uno stage, oggi considerato come primo passo verso un impiego stabilizzato, è retribuito tra 400 e 700 euro; i minimi di partenza nei diversi contratti non superano i 1.200 euro per un lavoratore a tempo indeterminato, soglia che può percepire con il reddito di cittadinanza una famiglia con due figli a carico. I numeri, più che mai, hanno un valore simbolico-sociale.

Non ci ha messo molto Maurizio Landini a dare un’impronta neo-salarialista alla sua leadership nella Cgil nel momento stesso in cui ha dato luce verde a una stagione di confronto con le imprese per dare vita a un nuovo protocollo che vada oltre il Patto per la fabbrica già firmato da Cgil, Cisl e Uil e Confindustria nel 2017. In questo periodo il tema è oggetto di ampia pubblicistica economica (Mazzucato, Crouch, Mayer, Blodget, Bregman solo per citarne alcuni) volta a screditare l’impatto delle forme più deregolate di neoliberismo (soprattutto americano) che hanno privilegiato il “capitalismo degli azionisti” squilibrando le dinamiche dell’accumulazione a favore dei profitti e non dei salari. Perfino a Davos, ormai da più edizioni, è un tema ricorrente.

Non è da escludere che la lunga impasse nelle relazioni industriali causata dalla presunta battaglia campale per i diritti, con l’articolo 18 come vessillo, abbia distolto le energie collettive delle parti sociali dal tema più classico e più loro proprio: i salari. La precarietà è stata sempre evocata come fenomeno da sconfiggere, ma tramite regole e mai, ad esempio, tramite un aumento della remunerazione del disagio. Il tema delle retribuzioni è approdato anche in Europa e non è un caso che sia diventato un vero cavallo di battaglia di Mario Draghi preoccupato - per statuto - della scarsa crescita dell’inflazione proprio a causa di una dinamica debole delle buste paga, europea, ma più acuta in Italia.

La rappresentazione della guerra tra profitti e salari è ancora una volta caricaturale e la verità, come sempre, sta nel mezzo perché, soprattutto in Italia la dinamica della produttività è quasi piatta da 20 anni e registra comunque una crescita inferiore al tasso di crescita degli stessi aumenti salariali; resta il fatto che le buste paga in Italia sono più basse (in termini assoluti) fino al 20% di altri Paesi Ue competitor (Germania e Francia) dove però la produttività cresce a tassi simili. I rinnovi contrattuali hanno distribuito, in questi anni difficili, i giusti adeguamenti ai tassi di inflazione che però sono stati di poco superiori alle zero ed è per questo che si sono concentrati soprattutto in forme alternative di remunerazione con la varia ed efficace gamma degli accordi di welfare aziendale.

Ma al tempo dell’inflazione zero ciò che conta è la produttività, perché è l’unica modalità con cui si crea ricchezza distribuibile: in Italia la produttività nell’ultima fase, dove l’impatto dell’innovazione ha consentito un sussulto, è rimasta bloccata su dinamiche di crescita che sono meno di un quarto di quelle tedesche e metà di quelle medie europee. L’idea di creare uno spazio fiscale per incentivare il salario di produttività è la strada più diretta per affrontare il tema: aumenta le buste paga e rimane all’interno della compatibilità dell’impresa e fa crescere i consumi e l’economia in generale. Ma lo spazio fiscale si trova solo se si affronta una volta per tutte il famigerato tema del taglio del cuneo fiscale che oggi rende il costo del lavoro per l’impresa tra i più onerosi e il salario netto dei lavoratori tra i più bassi. È questa la sfida. Ed è su questo che, finalmente, le parti sociali potrebbero trovare una nuova convergenza concreta e lungimirante. Darebbe fiato al Pil e ridarebbe ruolo ai corpi intermedi, oggetto di un ridimensionamento tanto voluto quanto autolesionista.

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