La prova del danno non patrimoniale provocato da condotte vessatorie può essere raggiunta anche con ricorso a presunzioni semplici. E sulla base di ciò la Cassazione (sentenza 4815/2019) ha accolto le tesi di un dirigente per il risarcimento del danno non patrimoniale cagionato dalle condotte poste in essere dal legale rappresentante della società, concretizzatesi nelle ripetute offese sulla presunta omosessualità del dirigente.
La Corte d’appello di Venezia aveva confermato la pronuncia di primo grado ritenendo, da un lato, provata per testi la condotta vessatoria datoriale e, dall’altro, provato per presunzioni il danno subito dal dirigente.
Con due motivi di ricorso, l’azienda ha impugnato la sentenza alla Corte di cassazione deducendo la mancata prova della condotta inadempiente del datore di lavoro, nonché la mancanza di qualsiasi accertamento sia da parte del tribunale che della Corte territoriale in merito all’esistenza del danno, alla gravità della lesione e alla serietà del pregiudizio.
La Corte di legittimità – dopo aver rilevato plurimi profili di inammissibilità dei due motivi di ricorso - ha ribadito il proprio orientamento in tema di danno non patrimoniale.
In particolare, con un excursus giurisprudenziale, la Cassazione ha rammentato che il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile – sulla base dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 del codice civile, fornita dalle Sezioni unite con la sentenza 26972/2008 – anche quando non sussiste un fatto-reato a condizione «(a) che l’interesse leso – e non il pregiudizio sofferto – abbia rilevanza costituzionale; (b) che la lesione dell’interesse sia grave […]; (c) che il danno non sia futile».
Quanto alla prova del danno, la Suprema corte, dopo aver confermato che «il danno non patrimoniale, anche nel caso di diritti inviolabili, non possa mai ritenersi “in re ipsa” ma vada debitamente allegato e provato da chi lo invoca», ha precisato come tale prova possa essere fornita «anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici».
La Cassazione ha infatti chiarito che «le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione».
È compito dunque del giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso a presunzioni e tale «apprezzamento di fatto» - continua la Corte - «ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità».
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