Questa volta sarà quasi impossibile. Da anni le clausole Iva sono nella finanza pubblica una promessa di correzione che si sa di non mantenere. Ma questa volta, appunto, la via d’uscita appare praticamente chiusa. Da tre ostacoli.
I valori messi a bilancio per 2020 e 2021, rispettivamente 23,1 e 28,8 miliardi, superano di slancio tutte le edizioni passate delle clausole. Questi aumenti, e qui arriva il secondo problema, non servono più a fingere un percorso verso il pareggio, come accaduto finora, ma a evitare che il deficit si impenni fin sopra quota 3 per cento. E il deficit, terzo problema, è già spinto in alto da una congiuntura che promette di fermare la dinamica del Pil 2019 molto sotto sia all’1% messo in programma dal governo sia allo 0,6% posto a base del quadro tendenziale.
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Con questi presupposti, è impossibile cancellare le clausole con il disavanzo, che negli ultimi tre anni ha finanziato il 75% dello sforzo anti-Iva (52 miliardi su 71). A meno di non tentare la strada di un “patto” con Bruxelles, in uno scambio tra una dote di flessibilità anti-aumenti e l’impegno a non replicare clausole nel futuro: lo ha suggerito il centro studi Confindustria, chiedendo come l’Ufficio parlamentare di bilancio e un numero crescente di economisti un’operazione-verità per cancellare uno strumento che da garanzia di tenuta dei conti si è trasformato in uno dei principali fattori di incertezza sulle prospettive fiscali del Paese. Anche perché, con una manovra 2020 che tra Iva e spese obbligatorie già si avvicina ai 30 miliardi di partenza, trovare vie alternative non è semplice.
Il momento della verità sarà la manovra d’autunno. Ma il calendario è fitto di appuntamenti precedenti. Entro il 10 aprile un Def anche in formato ultraleggero dovrà mettere in tabella le ricadute prodotte dalla frenata dell’economia sull’indebitamento netto e soprattutto sul debito, che già l’anno scorso è tornato a salire fino alla quota record del 132,1% e va tenuto a bada per i mercati prima ancora che per la commissione Ue.
Anche a Bruxelles, in ogni caso, la situazione è solo sospesa prima delle elezioni del 26 maggio. E già dal mese successivo si rischia di dover mettere mano a una correzione in corsa dei conti. La legge di bilancio ne incorpora una parte, con i due miliardi congelati che possono trasformarsi in un taglio vero e proprio. Ma due miliardi sono poco più di un decimale di Pil. Rischia di non bastare.
Numeri e scenari hanno iniziato da settimane a girare sui tavoli della politica e dei tecnici dell’Economia, alimentando anche prima che scoppiasse la grana Tav l’ipotesi di un Def limitato al quadro tendenziale. L’anno scorso, ad aprile, un governo Gentiloni in carica solo per gli “affari correnti” si limitò appunto al tendenziale, cioè alla radiografia del quadro macroeconomico e dei saldi di finanza pubblica. La stessa mossa oggi fotograferebbe le prospettive di deficit e debito in rialzo quest’anno, ma tenuti a freno dalle maxiclausole nei prossimi due. Rimandando all’autunno il problema.
Ma le tentazioni di rinvio non hanno certo fermato i dossier tecnici al ministero dell’Economia, in un lavoro già avviato lo scorso anno prima che i “no” gialloverdi fermassero sul nascere le analisi avviate su impulso del ministro Tria. Le ipotesi tecniche sono molteplici, lavorano su tutta l’architettura delle aliquote e si incrociano con l’esame costante delle tax expenditures per non caricare davvero sull’Iva tutto il peso delle clausole. Ma il problema è la politica, che finora ha respinto al mittente tutte le fatiche spese dai tecnici sia sull’imposta sia sulla potatura di deduzioni e detrazioni, l’altro obiettivo perennemente mancato dalle manovre degli ultimi anni.
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