Le imprese ordinarie pagano imposte sul reddito nei Paesi in cui operano; le web companies non le pagano affatto. La ragione è semplice. Per le prime esiste – ed è accertabile – un legame fra territorio di operatività e prelievo di ricchezza; per le seconde può conoscersi, al più, il prelievo di ricchezza. Tutta quella parte di diritto tributario internazionale che si è retta sul binomio Stato di residenza/Stato di attività (tramite una stabile organizzazione), che consentiva un'equa ripartizione del diritto a tassare fra i due, viene meno per le web companies.
Considerato che questa situazione deriva dall'attuale definizione di “stabile organizzazione”, si potrebbe rimediare rivedendo la stessa. Ma i lavori in sede Ocse testimoniano da un lato la difficoltà oggettiva di adeguare questa definizione all'economia digitale, e dall'altro la netta divaricazione di interessi fra chi prevalentemente produce e chi consuma economia digitale. Quand’anche si raggiungesse un accordo sulla definizione di stabile organizzazione digitale (come la proposta di direttiva Ue 147/2018 tenta di fare), resterebbe poi aperto il tema della misurazione del reddito attribuibile alla stabile organizzazione.
Vi sono alternative? Sì, se si pensa in grande.
Si potrebbe svincolare la tassazione delle imprese dal mito del reddito netto. Questo è solo uno dei possibili misuratori di capacità contributiva ed è stato storicamente preferito perché sinonimo di una partecipazione del fisco locale al risultato finale dell'attività imprenditoriale del territorio. Funziona se luogo di esercizio dell'attività, mercato da cui derivano i flussi di cassa e beneficiario della tassazione coincidono. Ma se uno di questi cambia si affacciano complicazioni.
Si potrebbe allora basare la tassazione su parametri diversi o su un loro mix: come fa, ad esempio, la proposta di direttiva Ccctb (Common corporate consolidated tax base) che prende in considerazione ricavi, immobilizzazioni e costi del personale e li utilizza per ripartire il reddito consolidato di una multinazionale fra i Paesi in cui opera.
La seconda è la rinuncia a tassare – con imposte dirette – le imprese. E ciò nella considerazione che la tassazione del reddito delle imprese (costituite in forma societaria) è da sempre considerata una tassazione in acconto d'imposta dovuta dal beneficiario effettivo dello stesso, il socio persona fisica. Ipotesi certo con fondamento scientifico: ma poco aderente ad una realtà globalizzata che vedrebbe perdenti le economie povere di soci importanti. Ne deriverebbe, probabilmente, un'accentuazione dell'imposizione indiretta (perlopiù non progressiva).
Ecco perché, alla fine – come rilevato nella ricerca della Fondazione Bruno Visentini presentata il 4 aprile – è spuntata la Web Tax, una sorta di accisa il cui pregio è far pagare subito un po' di imposte nazionali a chi non ne paga. Soluzione rozza e asistematica che la Ue stessa, nella proposta di direttiva 148/2018, definisce “Interim Web Tax”. Proprio per accentuarne il valore emergenziale e provvisorio.
(Fondazione Visentini-Ceradi)
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