Leggi regionali ritoccate anche una volta all’anno. Ventuno diverse definizioni di strutture extralberghiere, dalle normali case vacanza alle “case del camminatore” regolate in Lazio e Umbria. Un costante conflitto davanti alla Consulta, con cinque normative regionali impugnate dal Governo e 24 sentenze della Corte costituzionale negli ultimi tre anni. È l’istantanea scattata dalla ricerca «Turismo “digitale” e Costituzione», curata dalla Sda Bocconi. Lo studio, che Il Sole 24 Ore del Lunedì è in grado di anticipare, è stato finanziato da Airbnb, il portale per la gestione degli affitti brevi.
Gli affitti brevi sono da tempo nell’occhio del ciclone. Da un lato, le piattaforme online hanno creato un fenomeno impensabile fino a pochi anni fa. Dall’altro, gli albergatori denunciano il rischio di irregolarità, concorrenza sleale ed evasione fiscale. «Non è tollerabile il far west che si registra nel settore delle locazioni brevi», ha dichiarato nelle scorse settimane il presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca.
È in questo scenario che si muovono le Regioni. Facendo leva sulla loro competenza esclusiva in materia di turismo (articolo 117, comma 4, della Costituzione). Ma rischiando di sconfinare in altre materie “statali”.
Come si legge nello studio della Sda Bocconi, otto Regioni hanno un quadro normativo che per la maggior parte risale a dieci o più anni fa. Quando ancora l’home sharing non esisteva. È il caso, ad esempio, di Abruzzo, Basilicata, Marche e Valle d’Aosta. Ciò che conta, però, è anche la frequenza delle modifiche: una ogni sette mesi in Liguria negli ultimi tre anni; una ogni 18 mesi in Emilia Romagna, Lombardia e Toscana; una ogni 24 mesi in Campania e Lazio.
Spesso le modifiche avvengono per prevenire o risolvere contestazioni, come nel caso delle normative di Lazio (legge 8/2015) e Toscana (86/2016). Anche se non mancano i casi in cui la Consulta “promuove” le norme locali, ultima la sentenza 84/2019 sulla legge lombarda 7/2018 che impone ai locatori di indicare il Codice identificativo (Cir) negli annunci.
Lo stesso Airbnb è in contenzioso contro la norma – statale, però – che ha imposto agli intermediari di applicare una ritenuta del 21% sui canoni, in ottica antievasione (il Dl 50/2017). Airbnb, peraltro, collabora con 22 grandi Comuni riscuotendo direttamente l’imposta di soggiorno sugli affitti brevi.
In questo groviglio normativo non va sottovalutato l’intreccio tra obblighi di livello e origine diversi. Dagli adempimenti per l’avvio dell’attività (in alcune Regioni serve la Scia) all’uso di un codice identificativo (richiesto in Lombardia, Puglia, Sardegna e Toscana). Dalle comunicazioni fiscali obbligatorie a livello nazionale per gli intermediari (compresi quelli che non riscuotono il canone) alle indicazioni a fini statistici, fino alla segnalazione dei dati degli inquilini al sistema «Alloggiati web». Un passaggio, quest’ultimo, imposto dal decreto sicurezza (Dl 113/2018) e diventato pienamente operativo solo dopo che Confedilizia ha scritto al ministero dell’Interno per chiedere l’adeguamento dei portali delle questure.
Tra le proposte per migliorare la situazione, i curatori della ricerca della Sda Bocconi – Oreste Pollicino e Valerio Lubello – suggeriscono una classificazione ad hoc dei fenomeni di home sharing, che tenga conto di tutti gli interessi in gioco. E un dialogo tra i diversi database oggi coinvolti, con un intervento di semplificazione amministrativa.
Intanto, in settimana riprenderanno in commissione Attività produttive alla Camera le audizioni per il disegno di legge delega di riforma del turismo (Ac 1689). Ma l’iter è appena all’inizio.
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