Sono convinta che la specializzazione, intesa come competenza specifica in un determinato ambito, sia da tutti considerata un valore aggiunto così come non vi sono ostacoli di principio sull’idea che vi sia una effettiva esigenza di una maggiore valorizzazione del nostro ruolo nei differenti contesti in cui operiamo. Quello che suscita notevole perplessità è, invece, la volontà di considerare strategica, in questo particolare momento, una riorganizzazione normativa della nostra realtà professionale, attraverso una segmentazione della categoria in classi omogenee e predefinite di competenze, individuate attraverso l’obbligo di predeterminati requisiti.
La proposta sulle specializzazioni, così come strutturata nell’emendamento al Dl Crescita, (considerato, poi, inammissibile) prevede, infatti, la possibilità, per gli iscritti alla Sezione A di conseguire il titolo di specialista (non spendibile altrimenti) laddove esistano determinate condizioni (formazione, esperienza eccetera).
Obiettivo sarebbe, sulla carta, il riconoscimento di chi siamo e il riuscire a portare all’interno della professione i molti elenchi ai quali adesso i colleghi devono essere inseriti per operare in ambiti particolari.
Il tutto, però, senza riserve di legge. Riserve che sarebbero invece estremamente utili a tutela del cittadino.
Dico sulla carta perché in realtà, a mio avviso, il problema non è quello di “codificare” specializzazioni (peraltro già esistenti) ma riuscire a fare in modo che il legislatore, come avviene per altre categorie professionali, ci riconosca nelle norme le nostre competenze, ben definite nell’articolo 1 della nostra legge istitutiva. Competenze che, giova ricordarlo, non ci sono state regalate ma che ci siamo guadagnati a fronte dell’obbligo di una laurea, di un tirocinio, dell’esame di Stato, dell’obbligo formativo, del rispetto di regole deontologiche, della assicurazione obbligatoria, dei vincoli imposti dalla legge in materia di antiriciclaggio e, se dovessi continuare, la lista sarebbe veramente lunga.
In altre parole ritengo che il problema non sia quello di imporre ai colleghi un irrigidimento della propria attività, con le ulteriori barriere che le specializzazioni potrebbero generare, ma sia, invece, il dialogare in modo forse differente con il legislatore. Solo per fare un esempio: la legge di bilancio prevede voucher fino a 40mila euro per quelle piccole e medie imprese che vogliono avvalersi di un consulente per la trasformazione digitale. Fra le attività indicate vi sono, anche, aree di specifica nostra consulenza quali l’applicazione di nuovi metodi di significativa innovazione organizzativa di impresa, nelle strategie di gestione aziendale. Per ottenere il voucher ci si deve avvalere di professionisti presenti in uno specifico albo nel quale, a mio avviso, noi dovremmo poterci iscrivere di diritto. Purtroppo, secondo le anticipazioni che si hanno, noi, invece, nei decreti attuativi non siamo citati. Una dimenticanza? Spero di sì, ma sono certa che, se ci avessero coinvolti, avremmo potuto dare un contributo concreto nell’ ottimizzazione di questa opportunità per le imprese. A mio avviso è poco credibile dire che, inserendo una specializzazione al nostro interno, le cose sarebbero andate in maniera differente.
In conclusione: colleghi specializzati per nuove competenze sì (se lo desiderano), no a commercialisti costretti ad essere imbrigliati in etichette, vincoli e regole per poter svolgere la propria professione nelle aree che il legislatore già riconosce quali nostre “competenze specifiche”. Diciamo le cose come stanno: di obblighi ne abbiamo già anche troppi e aggiungerne altri, a mio parere, non ci condurrebbe proprio da nessuna parte.
* Presidente dell’Ordine di Milano
L'intervista con Miani
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