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Questo articolo è stato pubblicato il 06 febbraio 2011 alle ore 14:00.
L'ultima modifica è del 06 febbraio 2011 alle ore 15:24.

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«Patrimoniale: pena di morte per chi ne vuol discutere?»«Patrimoniale: pena di morte per chi ne vuol discutere?»

Mi spiace che nel mio paese prevalga tanta folcloristica acrimonia nella trattazione dei problemi comuni. Ma ciò che mi preoccupa è che possa condividerla e rimanerne prigioniero chi ci governa, quando è bene che da parte sua, ferme restando le più che legittime preferenze legate ai suoi principi e valori, rimanga tuttavia il pragmatismo necessario a non precludersi ciò che a un certo punto potrebbe risultare inevitabile. Tutti ricordano il read my lips (leggi le mie labbra) con cui Bush padre, durante la Convenzione repubblicana del 1988 che lo candidò alla presidenza degli Stati Uniti, rispose alla domanda se avrebbe mai aumentato le tasse. Le sue labbra dissero che non lo avrebbe mai fatto, la promessa contribuì certo alla sua elezione, ma poi, per ridurre il debito pubblico, fu costretto a farlo e questo gli costò non poco.

Da questo punto di vista, ho trovato peraltro incoraggiante la lettera firmata dal nostro presidente del Consiglio per il Corriere della Sera di lunedì scorso. In essa si esprime certo una comprensibile ostilità per qualunque imposizione straordinaria, ma si dice con forza che occorre sfuggire al dilemma fra la necessità di prevederla e la caduta in una gestione restrittiva e senza prospettive del bilancio pubblico, imboccando a tal fine la strada di una crescita una buona volta vigorosa.

Qui c'è un serio ragionamento economico, perché per far scendere il peso del debito sul Pil è importante ridurre il debito, ma è ancora più importante far crescere il Pil. Solo Dracula potrebbe dichiararsi pregiudizialmente contrario, mentre chiunque altro vorrà sottoporre il ragionamento a una prova di fattibilità. E l'auspicio è che la prova sia superata, come scrive Marco Deaglio (La Stampa del 1° febbraio) e come lascia intendere lo stesso Vincenzo Visco (Il Sole 24 Ore del 4 febbraio), che ritiene poco o nulla percorribile la strada dell'imposizione straordinaria.

Il fatto si è, però, che riportare l'economia italiana a una crescita sostenuta è tutt'altro che semplice e al di là dei cambiamenti simbolici come l'introduzione di un afflato più liberale nell'articolo 41 della Costituzione, si rischia di ritrovarsi davanti gli ostacoli che si vogliono invece evitare. A parte le liberalizzazioni non fatte (ma in Parlamento pende una riforma delle professioni legali che va in direzione diametralmente opposta), il problema principale delle imprese è oggi quello delle risorse finanziarie per investire e raggiungere i loro possibili mercati. E in questa fase di adattamento delle banche ai più rigidi requisiti di Basilea 3, averne dalle stesse banche è sempre più difficile e sempre più costoso. Servirebbe allora ridurre l'imposizione fiscale e contributiva e agevolare gli investimenti in ricerca e quelli nel Mezzogiorno in misura non simbolica. La situazione del bilancio ci offre i margini per farlo?
Per non parlare dell'unica riforma nella quale siamo tenuti impegnati da tempo, quella del federalismo. Essa è meritoria nell'ancoraggio ai costi standard di larga parte della spesa pubblica, ma ci si chiede se lo è altrettanto nella allocazione delle prerogative tributarie fra i vari enti di governo. Sono in molti infatti a temere che ne esca una lievitazione della pressione fiscale complessiva e forse chi si è speso tanto generosamente contro l'ipotetica patrimoniale avrebbe qui un tema più concreto per il suo impegno.

Insomma, siamo tutti per la crescita e nessuno ha voglia di mettere le mani nelle tasche degli italiani più di quanto già si stia massicciamente facendo. Ma il consiglio per chi guida è di avere la vista lunga e di non escludere nulla che possa servire domani a evitare che gli italiani, o la maggioranza di loro, un domani non l'abbiano più.
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