Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 23 aprile 2011 alle ore 08:10.

My24
Perché l'Italia non cresce 15 / Una micro-Piazza per gli AffariPerché l'Italia non cresce 15 / Una micro-Piazza per gli Affari

L'effetto: più debito, meno capitale
Qualcuno potrà obiettare: meno male che in Italia c'è poca finanza, dato che all'estero ha causato vere e proprie devastazioni. In parte è vero. Ma evitare gli eccessi non significa privarsene quasi del tutto. Come una medicina, anche la finanza va presa nelle giuste dosi. Ma va presa. La sua quasi totale assenza ci avrà anche preservato dalla crisi, ma ha lasciato sull'Italia molti effetti collaterali. Non solo in termini di minore crescita economica, ma anche per il fatto che le imprese nostrane sono più indebitate di quelle estere. In Italia il rapporto tra debito finanziario e patrimonio netto – stima The european house/Ambrosetti – è al 58 per cento. In Europa la media è al 47 per cento. Questo perché da noi le imprese, in mancanza di alternative, si sono sempre finanziate solo in banca.

E questo non va bene, per almeno due motivi. Uno: basta una crisi creditizia (guarda caso ce n'è appena stata una), che le aziende si trovano alla canna del gas. Due: approvvigionandosi solo allo sportello, le aziende italiane oggi hanno mediamente troppi debiti e poco capitale. Così oggi, dopo la crisi finanziaria e in vista della stretta al credito per effetto di Basilea 3, le aziende si trovano svantaggiate rispetto alle loro concorrenti estere. Oggi la finanza servirebbe. Ma non è facile far partire un motore arrugginito.

Il circolo vizioso
Se sia nato prima l'uovo (mercati finanziari arretrati) o la gallina (lenta crescita del Pil) è impossibile a dirsi. Probabilmente sono l'uno la causa dell'altro. L'esiguità dei mercati finanziari ha infatti frenato la crescita economica dell'Italia, ma dal canto suo il passo da lumaca del Pil ha frenato il ricorso ai mercati finanziari da parte delle imprese. Queste ultime non usano il volano della finanza perché sono piccole, ma probabilmente restano in formato "mignon" proprio perché non si aiutano con gli strumenti che la finanza offre. Di investitori istituzionali ce ne sono pochi (si pensi che oltre il 90% degli scambi tra professionisti sull'indice Ftse Mib è prodotto dall'estero), ma se il mercato resta asfittico è ovvio che ne nascano pochi. E se poche imprese si quotano, poche possono emettere obbligazioni sui mercati: chi non è in Borsa, infatti, ha svantaggi fiscali sul mercato dei bond. Insomma: il circolo vizioso si avvita.

Per cercare di sbrogliare la matassa bisogna dunque capire perché le imprese italiane usano poco le leve della finanza per espandersi. Per esempio: perché in poche si quotano sul listino azionario? Borsa Italiana ha creato per le Pmi ben due listini (il Mac e l'Aim), ha abbassato i costi di quotazione e limitato all'osso gli obblighi burocratici. Eppure di matricole ce ne sono ben poche. Perché? Il Sole 24 Ore ha rivolto questa domanda a sei diversi addetti ai lavori i quali, a microfoni spenti, hanno elencato varie motivazioni. La prima risposta va cercata nella struttura dell'impresa-tipo italiana: è a carattere familiare. Questo non incentiva il ricorso alla Borsa. «Ovvio – commenta un osservatore – che chi in società mette figli e nipoti non vuole avere investitori esterni che interferiscano nella gestione dell'azienda». C'è poi il problema dell'evasione fiscale. «Chi ha problemi col Fisco – osserva Pinza – difficilmente si affaccia sul mercato finanziario». Commenti analoghi sono arrivati da tutti gli interlocutori. Ma non è solo dalle imprese che bisogna cercare le risposte. «Anche le banche – osserva un addetto ai lavori – hanno sempre avuto interesse a erogare credito piuttosto che a favorire il ricorso ai mercati».

Politica industriale cercasi
C'è un altro responsabile: lo Stato. Il vero grande assente. In Italia è sempre mancata una politica volta a favorire il ricorso ai mercati. Basti pensare che gli interessi dei finanziamenti bancari sono deducibili fiscalmente, mentre i costi impliciti della quotazione in Borsa non lo sono: per le aziende è dunque più conveniente, dal punto di vista delle tasse, indebitarsi piuttosto che quotarsi in Borsa. Gli svantaggi fiscali sono ancora peggiori per il ricorso al mercato obbligazionario: il pagamento degli interessi sui bond emessi da società non quotate in Borsa è soggetto a imposta sostitutiva. Dunque chi non si quota in Borsa (anche perché non ha incentivi fiscali), fatica a emettere obbligazioni (sempre per gli svantaggi fiscali). Il gatto si morde sempre più la coda.

Anche il private equity, che potrebbe essere un importante anello di congiunzione tra Pmi e Borsa, non ha alcuna agevolazione: «Non esistono legislazioni specifiche in Italia per sostenere gli investimenti dei fondi anche in quote di minoranza di aziende – osserva Giovanni Calia partner di Lek Consulting –. Certo, è nato il Fondo Italiano d'Investimento. Ma questo è un intervento di matrice statale. Quello che manca è una legislazione che crei le condizioni ottimali per operazioni private». Per uscirne, forse, bisogna partire proprio da qui. Dagli incentivi fiscali. Dalla politica industriale. Di proposte, in passato, ne sono state fatte tante. Forse è il momento di rispolverarle, piuttosto che piangere sugli accordi di Basilea 3.

m.longo@ilsole24ore.com

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Shopping24

Dai nostri archivi

301 Moved Permanently

Moved Permanently

The document has moved here.