Il Sole 24 Ore
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Il Messico vende dollari e compra lingotti d'oro

Sissi Bellomo



Quasi cento tonnellate di oro nel giro di un paio di mesi. L'acquisto della Banca centrale messicana, emerso dalle statistiche del Fondo monetario internazionale, non è bastato a frenare la correzione del lingotto, che ieri – trainato dal crollo dell'argento, in ribasso di quasi il 20% in tre sedute – è arretrato fino a circa 1.510 dollari l'oncia. La notizia tuttavia è stata accolta dagli analisti come una delle manifestazioni più evidenti di una rivoluzione che sta attraversando il mercato dell'oro, oltre che come un ulteriore, significativo segnale di sfiducia nei confronti del biglietto verde, ormai scivolato a valori vicini al minimo storico (la discesa è proseguita anche ieri, in risposta a dati economici deludenti dagli Stati Uniti, tra cui in particolare il forte calo registrato in aprile dall'indice Ism dei servizi e dagli ordinativi, finiti ai minimi da dicembre 2009).
Dopo due decenni di prevalenti vendite, le riserve auree delle banche centrali sono tornate l'anno scorso per la prima volta a crescere, grazie agli acquisti di molti Paesi emergenti, tra cui Cina, Russia e India. Il Messico si sta tuttavia muovendo in modo particolarmente aggressivo: alla fine di gennaio le sue riserve in oro ammontavano ad appena 220mila once, due mesi dopo erano salite a 3,2 milioni di once (ossia 100,15 tonnellate), una quantità pari a circa il 3,5% della produzione mineraria mondiale e che ai corsi attuali vale circa 4 miliardi di dollari.
Le riserve messicane hanno raggiunto in aprile il record storico di 128 miliardi di dollari, dunque l'oro rappresenta ancora una frazione marginale rispetto al totale: poco più del 3%, contro il 70% nel caso degli Usa, al primo posto nella classifica mondiale. Il fatto che gli acquisti siano avvenuti in un periodo in cui le quotazioni dell'oro già inanellavano un record dietro l'altro è tuttavia significativo degli umori che attraversano il mercato. «Probabilmente – ipotizza Sergio Martin, capo economista di Hsbc in Messico – pensano che abbia senso uscire dal dollaro, perché sono convinti che questo si deprezzerà ancora». Una sfiducia che pesa come un macigno, considerati i forti legami economici e commerciali con i vicini Stati Uniti.
Il governatore messicano Agustin Cardens è stato protagonista in passato di ardite speculazioni finanziarie: nel 2009, grazie a un fortunato hedging sulla produzione petrolifera nazionale, aveva portato nelle casse dello Stato 5 miliardi di dollari, quasi tutti persi probabilmente con le successive scommesse (per il 2011 il Messico ha venduto in anticipo una parte del suo greggio, bloccandone il prezzo a 65-70 dollari al barile, quando oggi ne vale oltre 100). Stavolta, tuttavia, le sue mosse non brillano per originalità. Le statistiche diffuse ieri dall'Fmi mostrano che nel primo trimestre hanno comprato oro anche Russia e Thailandia. Mosca ha aggiunto 18,8 tonnellate alle sue riserve portandole a 811,1, mentre Bangkok le ha accresciute di 9,3 tonnellate a 108,9.
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