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Questo articolo è stato pubblicato il 19 maggio 2011 alle ore 17:21.

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Obama prepare il Piano Marshall per il mondo araboObama prepare il Piano Marshall per il mondo arabo

Arabia Saudita
Nella casa regnante saudita serpeggia la preoccupazione. E nei palazzi del potere si osservano con attenzione le proteste al di là del confine meridionale con lo Yemen e soprattutto quello che sta succedendo in Bahrain, un paese il cui governo è stretto alleato di Riad ed è collocato a poco più di venti chilometri dalla costa saudita. Il più grande paese della penisola riceverebbe ripercussioni gravi se il re del Bahrain, Hamad bin Isa al-Khalifa dovesse essere rovesciato. Inoltre si temono sollevazioni della minoranza sciita che abita le regioni orientali dell'Arabia Saudita, in cui si trovano la maggior parte dei pozzi petroliferi. Senza contare che quelle stesse regioni orientali sono proprio dirimpettaie del Bahrain, paese in cui i protagonisti della rivolta popolare sono proprio i cittadini sciiti (lì, però, sono la maggioranza) che protestano contro un re sunnita. Sul futuro prossimo saudita pesano anche i problemi interni alla famiglia regnante dovuti al fatto che il re Abdullah bin Abdul-Aziz e i suoi fratelli sono molto anziani. Il 23 febbraio il re annuncia un pacchetto di sussidi economici per i suoi sudditi superiore a 35 miliardi di dollari. Mentre si moltiplicano timidi desideri di riforme politiche (monarchia costituzionale), di più posti di lavoro e di migliori condizioni economiche, il 4 marzo le autorità ribadiscono che sono proibite le manifestazioni di protesta e importanti esponenti religiosi suffragano il divieto, affermando che gli appelli alla protesta non sono conformi alla dottrina islamica. Nonostante questo nelle prime settimane di marzo ci sono alcune piccole dimostrazioni e proteste contro l'intervento dei militari sauditi in Bahrain, da cui sono scaturite tra la fine di marzo e l'inizio di aprile frizioni diplomatiche con Teheran.

Yemen
Durante tutto il mese di febbraio decine di migliaia di persone animano ricorrenti manifestazioni antigovernative nello Yemen, uno degli Stati più poveri della regione. Nella capitale Sana'a gli studenti universitari sono particolarmente attivi nelle proteste, che chiedono un passo indietro al presidente Ali Abdullah Saleh, al potere dal 1978, prima nel solo Yemen del Nord e poi nel paese riunificato. Il presidente promette che non si ricandiderà nelle elezioni del 2013, ma esclude di lasciare il suo posto prima di allora. Negli ultimi giorni di febbraio violenti scontri oppongono chi protesta e squadracce di picchiatori "controrivoluzionari" che molti pensano siano stati assoldati e armati dal governo. Si contano più di dieci vittime. Numerosi deputati del partito di governo lasciano il Parlamento per protesta contro gli eccessi nella repressione delle violenze. In occasione della preghiera del venerdì, il 25 febbraio decine di migliaia di persone si radunano in strada nella capitale San'a nella più grande manifestazione dall'inizio delle proteste nel paese arabo. Il 4 marzo un'altra grande manifestazione chiede le dimissioni del presidente. Intanto nei primi giorni di marzo anche alcuni capi tribali si sfilano dalla loro alleanza con il regime e si registra la morte di alcuni soldati yemeniti in un attacco attribuito ad al Qaida. Anche un gruppo che si batte per la secessione del Sud del paese si unisce alle proteste, ma con obiettivi che nulla hanno a che fare con quelli degli studenti e degli altri oppositori. Nel corso del mese di marzo ci sono ancora scontri e decine di vittime e centinaia di feriti tra i dimostranti. Spezzoni dell'esercito si uniscono alle proteste e il paese scivola verso la guerra civile. Saleh vede sgretolarsi il suo potere e il 22 marzo fa intravedere la possibilità di un suo passo indietro fra circa un anno e di un graduale passaggio di poteri, ma la piazza e le opposizioni rifiutano l'apertura del presidente. Nei giorni successivi la tensione rimane altissima. Intanto negli ultimi giorni di marzo gli Stati Uniti iniziano a "scaricare" Saleh, che era considerato un prezioso alleato dell'Occidente in funzione anti-qaedista. Nei primi giorni di aprile la posizione di Washington nei confronti del presidente yemenita prende una forma più chiara: gli Stati Uniti non ritengono che sia in grado di attuare le necessarie riforme e che quindi sia necessario un suo immediato passo indietro. Il 4 aprile nella località meridionale di Taiz muoiono almeno quindici manifestanti (decine i feriti), uccisi dalle forze di sicurezza e da cecchini senza uniforme che hanno aperto il fuoco sulla folla. Nei giorni successivi, i ministri degli Esteri degli Stati del Golfo propongono un negoziato, da tenersi in Arabia Saudita, in cui si prepari il graduale passaggio di consegne tra Saleh e un nuovo governo. Il presidente yemenita si dice disponibile a un'ipotesi di transizione, ma la piazza rifiuta ogni piano che non costringa a immediate dimissioni Saleh e che preveda una sua immunità giudiziaria. La seconda metà di aprile e la prima metà di maggio si trascinano in un tiramolla sul testo che i negoziatori propongono a Saleh, in cui si prevede una sua uscita di scena accompagnata da garanzie di immunità. Intanto nel paese è uno stillicidio di proteste, manifestazioni, disordini, scontri con la polizia. Ancora morti e feriti. Per il 18 maggio era prevista la definitiva firma del presidente sul documento che avrebbe decretato il suo abbandono della carica e la formazione di un governo di unità nazionale. Ma, ancora una volta, Saleh si tira indietro all'ultimo minuto.

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