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Questo articolo è stato pubblicato il 29 luglio 2011 alle ore 08:03.
L'ultima modifica è del 29 luglio 2011 alle ore 07:37.

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È figlia di Reagan quella voragine pari al 140% del PilÈ figlia di Reagan quella voragine pari al 140% del Pil

Il debito pubblico americano, più che conseguenza della crisi finanziaria del 2008, è figlio primogenito dell'ottimismo reaganiano, e dei suoi eredi. È un problema serio da un quarto di secolo e drammatico da almeno due anni. Ben prima del duro scontro di questi giorni sull'innalzamento del tetto legale.

C'è una certa confusione e persino l'Economist può farla, parlando di un debito al 65% del Pil una volta (il 9 luglio 2011), del 92% un'altra (il 28 aprile). Per chiarezza è bene partire, arrotondando, dai 14.500 miliardi di dollari per il debito federale totale (Total public debt). Si passa a 17.500 aggiungendo il debito di Stati ed enti locali, e poi a 20.500 con tutte le garanzie non direttamente iscritte a bilancio che Washington con la crisi ha dovuto assicurare, essenzialmente al sistema della finanza immobiliare pubblica. Le percentuali dicono che il Total public debt sarà presto al 100% del Pil. Al 120 con Stati ed enti locali. Al 140% con la finanza immobiliare.

Il 65% dell'Economist, in realtà al momento più vicino al 67%, è la cosiddetta quota held by the public, una parte del Total public debt. Con held by the public si indicano tutti i detentori, residenti e non, persone fisiche e giuridiche, Federal Reserve compresa, ad eccezione del debito detenuto da enti dell'Esecutivo. Fino a non molto tempo fa era quella dello held by the public la cifra corrente. Ma è altamente riduttiva. Occorre sommare infatti per arrivare al Total public debt i 4.600 miliardi, pari a circa il 32% del Pil, di titoli non negoziabili del Tesoro detenuti da varie entità dell'Esecutivo. Oggi, come precisa il Gao (Government accountability office), si tratta di debiti del Tesoro che vanno conteggiati. Si arriva quindi a ridosso del 100 per cento.

Mancano poi i circa 3mila del debito statale e locale, 2.450 miliardi a gennaio, ma con diverse partite off balance. E mancano le garanzie per la finanza immobiliare pubblica, i giganti Fannie e Freddie soprattutto, ma non solo. Fannie e Freddie hanno collocato ai quattro venti obbligazioni per 1.700 miliardi e garantiscono i rendimenti per altri 5.500 miliardi di titoli cartolarizzati e in parte notevole venduti agli angoli della Terra. Washington deve garantire per quel 25% circa di mutuatari che non paga o non pagherà più. Da qui, pur tenendo conto che dietro c'è un quarto del patrimonio abitativo americano, circa 3 mila miliardi (1.700 di obbligazioni più 1.300) da accollare al debito pubblico, con un calcolo molto favorevole. E siamo ad altri 3mila miliardi che portano il totale a 20.500, cioè a poco meno del 140% del Pil.

Le tre presidenze più prodighe sono state quelle di Ronald Reagan, di George W. Bush e, suo malgrado, di Barack Obama, ma cruciale è la prima per l'origine del disastro. Reagan prometteva uno stato dimagrito, ma diminuivano solo le tasse, non le spese. «La rivoluzione reaganiana arrivava presto a essere un incauto esercizio di economia del pasto gratis. E presto, il gigantesco errore di politica fiscale che veniva scatenato a spese dell'economia nazionale e mondiale diventava insanabile», scriveva nel 1986, 25 anni fa cioè, David Stockman, fino a un anno prima ministro del Bilancio, e testimone diretto di un sistema che colmava i vuoti col debito. Reagan, che a differenza di Bush figlio le tasse le alzò anche, trovò un debito (Total public debt) al 32% del Pil e lo lasciò al 53%, Bush figlio partì dal 56% per arrivare all'82% con una media di oltre 500 miliardi l'anno. Obama, causa crisi e crollo del gettito soprattutto, ha triplicato la velocità, portandola a 1.500 miliardi di debito in più all'anno, grossomodo.

Stockman, a 65 anni, è tornato sulla scena come analista, e ha per uscire dalla crisi una ricetta chiara, ma dura: ritorno a un fisco pesante, imposta sulle transazioni, Iva, pensione e sanità inversamente proporzionali al reddito. Non c'è scampo, dice.

E Bill Clinton? Clinton è l'eccezione perché aiutato da un decennio felice ridusse il debito, dal 66 al 56%, con un taglio di quasi 1.500 miliardi. Ma c'è una postilla da fare. La riduzione del debito fu il capolavoro del ministro del Tesoro Robert Rubin, deciso a dimostrare che l'America sapeva governare la spesa e quindi Wall Street restava il cuore della finanza mondiale. Rubin veniva da Wall Street, dove sarebbe tornato, e oltre al risanamento del bilancio curò con particolare forza la deregulation e l'abbattimento delle regole finanziarie. Wall Street trionfava, guadagnava cifre mai viste, si suicidava. E il bilancio pubblico doveva alla fine raccogliere i cocci. Fanno 70mila dollari di debito pubblico a testa per ogni americano, quasi il doppio dei 39mila che pesano su ogni italiano. Che poi Reagan risulti nella maggior parte dei sondaggi il presidente più popolare dell'ultimo secolo è un altro elemento di riflessione.

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