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Questo articolo è stato pubblicato il 07 agosto 2011 alle ore 13:42.
L'ultima modifica è del 07 agosto 2011 alle ore 08:10.

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Dalla credibilità di quell'accordo dipende il mondo intero, eppure in un sistema politico rigidamente polarizzato i repubblicani, ormai guidati dai Tea parties, sono contrari a qualunque aumento di tasse e i democratici lo sono a qualsiasi taglio delle spese sociali. Con le entrate al 15% del Pil e le spese al 24%, l'accordo rinvia al lavoro di una Commissione bi-partisan le misure da adottare per i prossimi anni. Non è così che si convince il mercato. E arriva il declassamento del debito Usa.

In Europa sappiamo bene come vanno le cose. Abbiamo una moneta unica e bilanci nazionali e siamo quindi nell'Eurozona ben più interdipendenti degli stati di qualunque altra parte del mondo. Eppure abbiamo ritardato per mesi l'intervento comune nei confronti della Grecia, dando così tempo al mercato di trasformare in problema di solvibilità quello che era all'inizio un problema di sola liquidità. Abbiamo finalmente deciso di dotarci di una "facility" finanziaria comune, ma mentre il mercato brucia i rappresentanti dei nostri governi sono ancora lì a scriverne le regole e comunque, quando sarà attiva, non disporrà ancora dell'unica arma che davvero calmerebbe lo stesso mercato, vale a dire la garanzia collettiva di tutti dietro i titoli che emetterà. E questo per ragioni di politica interna, fatte valere principalmente (ma non solo) dalla Germania.

Il caso italiano, che è racchiuso in questo contesto, ci è noto. In un recentissimo paper del Center for European Reform, Philip Whyte scrive che l'Italia è addirittura una bella copia del Giappone, caratterizzato da paralisi politica, bassa crescita e un debito totale e un disavanzo superiori ai nostri. Eppure i suoi titoli decennali sono all'1.2%. Perché? Perché il Giappone emette in una valuta di cui ha il controllo, mentre noi facciamo parte di un'unione monetaria che lascia i suoi membri sul bagnasciuga e che dovrebbe decidersi una buona volta a coprirli, e a coprire l'euro, con gli eurobond.

Insomma, per essere efficaci nel contrastare le tendenze negative del mercato, dovremmo essere tutti all'altezza della nostra interdipendenza e non lo siamo. E sia chiaro: ancora non lo è l'Europa monetaria, ma non è che noi italiani possiamo pretendere che ci dia comunque una mano, anche se non risulta adeguato ciò che noi facciamo. Se così è, infatti, è per prima questa nostra inadeguatezza a danneggiare il bene comune di cui nella stessa Europa monetaria siamo tutti responsabili. Io sono fra quelli che ritenevano giusto chiedere anche per l'Italia interventi di stabilizzazione della Banca centrale europea, che non possono essere riservati ai Paesi più piccoli, solo perché sono più piccoli (specie quando il mercato è sottile come in questi giorni). Ma non meno giusto è che ci siano condizioni da ottemperare, perché è inutile pompare fuori l'acqua se non si restringe la falla.

Evitiamo allora di lasciarci andare ai commenti, importati dalla Grecia esasperata di questi mesi, sull'Italia a sovranità limitata e soggetta al volere dei poteri forti dell'Europa e del mondo. C'è un mercato globale in subbuglio che si muove con la devastante irrazionalità di un oceano in tempesta. Per placarlo e incanalarlo verso comportamenti più virtuosi serve una rete forte di poteri pubblici, nel costruire la quale siamo già in grave ritardo. Preoccupiamoci di colmare il ritardo. So bene che, per farlo, le leadership politiche nazionali devono adottare scelte per loro difficili, che tali in genere sono per i problemi di giustizia distributiva che sollevano fra i loro elettori. Si può solo esortare loro, ma anche noi stessi, al coraggio e alla giustizia, le doti che serviranno per anticipare al 2013 il pareggio del bilancio italiano.

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