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Questo articolo è stato pubblicato il 23 agosto 2011 alle ore 08:35.

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Sollevò allora le speranze di un popolo, aveva ambizioni intellettuali, al punto di elaborare nel Libro Verde la "terza teoria universale", in contrapposizione sia al comunismo che al capitalismo. L'Islam, interpretato in maniera molto laica, doveva essere il propellente per lanciarla nel mondo arabo-musulmano.

Fu anche un utopista: il potere direttamente al popolo, in un sistema, la Jamahiriya, che non era né il socialismo né la democrazia rappresentativa. Certo fu un fallimento: alla fine della Libia sono rimaste le cabile e le tribù, insieme alle storiche divisioni tra Tripolitania e Cirenaica. Voleva lottare contro la mahsoubia, il nepotismo e la corruzione, poi c'è cascato in pieno, favorendo il suo clan, la famiglia e i figli, che si sono arricchiti e hanno dilapidato in lussi, emulando gli emiri del petrolio.
Il finale forse non è stato all'altezza delle attese suscitate dalla sua retorica ma non avrebbe preso il potere a 27 anni e attraversato tutte le temperie, compreso il bombardamento del presidente americano Ronald Reagan, se fosse stato soltanto una marionetta. È stato un leader, un capo militare, anche un terrorista, al quale la Libia andava stretta e che amava i coup de theâtre.

Gheddafi ha però mancato l'obiettivo più importante, quello di costruire uno stato moderno e si è rifugiato nelle tribù, prima di tutto nella sua, la Ghaddafiah. Il raìs libico, quando si è accorto di avere fallito nei suoi piani di grandeur, si è appoggiato, con il riflesso automatico della cultura beduina, su una rete di fedeltà e alleanze tradizionali.
La Libia lo ha tradito sin dall'inizio. Del resto aveva l'ambizione non di guidare un paese poco popoloso e marginale, ma uno stato come l'Egitto o la Turchia. Voleva essere il nuovo Nasser, magari di più. Per questo ha tentato l'unione con l'Egitto, la Tunisia, la Siria, finanziando guerre e velleitari tentativi di eversione: nel mondo arabo ha riscosso sempre ben poche simpatie. Ha sprecato centinaia di miliardi di dollari in armamenti, con un esercito troppo esiguo per manovrare inutili carri armati e flotte di cacciabombardieri che non gli sono serviti a nulla, per poi ridursi a usare milizie personali e mercenari per reprimere i ribelli.

Il suo dramma negli ultimi mesi si è consumato nel bunker alla caserma di Bab al-Aziziya, già sventrata nell'aprile 1986 dai caccia di Reagan. Qui tutto era stato trasformato in museo, compreso il lettino della figlia adottiva Hanna, 16 mesi, uccisa dalle schegge, conservato sotto una teca di vetro. Gheddafi ha vissuto in questa ossessione, nella memoria di quelle notti asserragliato con la famiglia ad aspettare le bombe. «Dove eravate voi?», ha ripetuto in tv rivolto alle nuove generazioni di giovani libici _ uno su tre ha meno di 15 anni_ che non lo capivano e volevano ben altro che la retorica guerresca.

Gheddafi è stato un giovane ufficiale animato dalla febbre di cambiare il mondo. La febbre si è tramutata in follia, in recita e ora all'ultimo atto, in disperazione e debolezza crudele. In questi mesi di inutile sangue sparso, strangolando Misurata in un assedio insensato, non si sentiva un dittatore ma l'educatore di una scolaresca renitente: ha pronunciato mille volte la parola bambini ribelli, giovani drogati. Con i massacri ha fatto un male estremo, senza rimedio, ma ha pure ucciso se stesso, l'ultimo barlume di quel capitano di cui per molto tempo dopo il colpo di stato non si conosceva neppure il nome. Se fosse rimasto così, solo un nome, sarebbe entrato nella galleria degli eroi arabi, ora è già un ritratto archiviato tra i peggiori dittatori della storia mediterranea.

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