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Questo articolo è stato pubblicato il 12 settembre 2011 alle ore 06:46.

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Prendiamo l'Egitto. «Il temuto blocco degli ordinativi, così come il mancato recupero dei pagamenti arretrati, di fatto si è verificato solo in piccola parte» confessa Angelo Lami, presidente di Ceramicolor e grande esportatore in prima persona verso l'Egitto con la sua Inco. Dato valore 100 al calo, il recupero è stato fra il 75 e l'80%. Per Lami e i suoi associati, l'avanzata a sorpresa delle piccole imprese in Egitto è già una realtà: «Il cambiamento ci sta avvantaggiando, è indubbio. Noi stiamo esportando parecchio. Qui ci sono 80 milioni di consumatori, è il mercato più grande di tutto il Nordafrica».
Certo, le cose da fare sono molte. La stessa ambasciata egiziana mette le mani avanti: «Il governo è deciso a intervenire sulle lentezze della burocrazia e sulla corruzione, ma le imprese ne sentiranno i primi effetti solo nei prossimi mesi. Così come sei mesi ci vorranno prima che l'economia egiziana torni a crescere». Nei primi tre mesi della rivoluzione, il calo del Pil è stato del 4,2%; la destituzione di Mubarak è costata al Paese 20 miliardi di dollari, e nei giorni più caldi della rivolta fuggivano quotidianamente all'estero 500 milioni di dollari di capitali.

Anche Sace consiglia prudenza: «La situazione macro di Egitto e Tunisia è molto peggiorata – afferma Raoul Ascari, Coo della società – e complessivamente l'attività su questi due Paesi si è ridotta». Secondo Sace, nei primi 5 mesi dell'anno l'export italiano è rallentato del 10% in Egitto e del 7,5% in Tunisia. Parallelamente, è aumentato il ricorso alle coperture assicurative: nei primi otto mesi del 2011 le operazioni Sace in Egitto sono state 18, contro le 13 dello stesso periodo del 2010; in Tunisia sono state addirittura 23, contro le 3 dell'anno precedente.
Segno che le imprese non si fidano: «In alcuni casi – spiega Ascari, abbiamo dovuto garantire lettere di credito, una cosa mai fatta in passato. Peccato che le banche locali siano ancora solide: si tratta dunque di una sopravvalutazione del rischio da parte di alcuni imprenditori». Ma segno anche che le imprese non abbandonano la Sponda Sud del Mediterraneo.

In Tunisia restano ancora più di 700 imprese italiane, che danno lavoro a 60mila persone. Qui tra maggio e giugno è stata vera e propria recessione, e a fine anno l'economia crescerà meno dell'1%. Le gare internazionali sono ferme: è vero che non si passa più dalle forche caudine della famiglia Ben Ali, ma non è nemmeno chiaro da chi bisogna passare ora, e con quali tempi. L'apertura delle banche a un maggior sostegno del rischio d'impresa è ancora in atto. I cambi ai vertici delle amministrazioni pubbliche più corrotte procedono a rilento. E tra marzo e maggio la vita è stata dura, fra scioperi, sit-in e anche boicottaggi. Nonostante il premier Essebsi sia rimasto saldo alla guida del Paese dal 27 di febbraio in poi.
«A maggio era pericoloso persino attraversare la strada. Nella frenesia di buttare a mare tutte le regole, le auto avevano cominciato a passare col rosso», scherza – ma non troppo – Giuseppe Colaiacovo, vicepresidente di Colacem, che in Tunisia ha un cementificio da 200 milioni di euro e 180 dipendenti.

Eppure anche in Tunisia le opportunità sono alle porte. L'edilizia è in grande effervescenza, le energie rinnovabili sono sotto i riflettori. Dall'ambasciata italiana a Tunisi suggeriscono di guardare ai settori oggetto di smobilitazione perché proprietà della famiglia Ben Ali: telecomunicazioni, trasporti, turismo, immobiliare. Per chi investe nelle regioni interne, più povere, sono già pronti gli sgravi contributivi sui lavoratori assunti.
Su un punto, soprattutto, concordano gli imprenditori italiani in Tunisia: le vere chance arriveranno dalla ricostruzione della Libia. Essere qui significa avere una base sicura e vicina per operare. Sicura, perché la Tunisia offre una certezza del diritto superiore a quella dei vicini orientali. Eppoi, in questi mesi di guerra fra Tripoli e Bengasi, in Tunisia sono approdati – e hanno già cercato casa – 900mila libici, la maggior parte benestanti. Una buona base di partenza per fare affari con l'ingombrante – ma promettente – vicino.

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