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Questo articolo è stato pubblicato il 08 ottobre 2011 alle ore 13:27.

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Perché il potenziale di crescita non è limitato alle materie prime. Sono diversi i motori di sviluppo. Innanzitutto il fenomeno dell'urbanizzazione: oggi città come Kinshasa, Lagos, il Cairo hanno più di 10 milioni di abitanti. Cambiano i consumi: crescono l'edilizia, i servizi sanitari, le reti urbane, il commercio e il credito. Altro capitolo fondamentale è l'agricoltura: il passaggio dall'autosussistenza alla produzione di prodotti di largo consumo per i mercati urbani (e l'export) richiede cambiamenti radicali: nuove coltivazioni, strade rurali, impianti di trasformazione. Lo stesso vale per l'energia: non tutti i Paesi africani dispongono di risorse petrolifere ma la maggior parte è in grado di produrre biocarburanti . Si aggiunge l'immenso potenziale idroelettrico dei grandi fiumi africani.
Infine c'è la new economy. Già oggi l'Africa è uno dei mercati in maggiore crescita per i telefoni cellulari. Nella maggior parte dei Paesi mancano adeguate reti informatiche e quindi, attraverso i telefonini viaggiano pagamenti, informazioni e transazioni di ogni tipo. Sempre più spesso con applicazioni made in Africa. Perché nelle grandi università africane ogni anno, si laureano centinaia di migliaia tecnici informatici, ingegneri, medici. E Paesi come Ghana, Sudafrica, Senegal, Rwanda stanno entrando nel pool degli esportatori mondiali di servizi per multinazionali: call center, attività di back office. Come gli indiani.

Finora del rilancio africano ha saputo approfittare più di tutti la Cina. Ci sono due modi di guardare a questo fenomeno. Uno è di accusare Pechino di "rapinare" l'Africa.

L'altro è di cogliere le opportunità che comunque si aprono con lo sviluppo. In Angola, oltre alla Cina che la fa da padrone, lavorano anche imprese brasiliane, francesi, portoghesi. In Mozambico Cmc Ravenna è la prima impresa di costruzioni e dagli ultimi dati Ance emerge che nella sola Africa subshariana i costruttori italiani hanno in corso commesse per oltre 9.300 miliardi di euro. E il primo mercato è l'Etiopia, un Paese che viene comunemente definito come "colonizzato" dai cinesi. «Ma il Governo di Addis Abeba si è reso conto che quello che si paga poco, vale anche poco», spiega il vicepresidente dell'Ance, Gian Domenico Ghella. Anche in Sudan, altra "colonia cinese", sono sempre gli italiani a costruire oleodotti e raffinerie. Mentre lungo tutta la Costa Orientale (oltreché in Algeria e Mozambico) è il gruppo Cremonini a presidiare il business delle catene del freddo.

Quello che ancora manca all'Italia e all'Europa non è l'iniziativa imprenditoriale ma è un approccio di sistema capace di coordinare supporto ai governi e alla società civile, flussi finanziari, supporto allo sviluppo.
La partita con la Cina non è ancora persa. Ma va giocata seriamente e tutti insieme.

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