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Questo articolo è stato pubblicato il 08 ottobre 2011 alle ore 13:27.

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L'errore più grave, nei momenti di disorientamento, come quello che sta attraversando l'Europa dell'euro, è di restringere l'orizzonte geografico e temporale alle difficoltà interne e alle sole pressioni che vengono dai mercati. Perdendo di vista i grandi cambiamenti che stanno emergendo nei Paesi con cui abbiamo rapporti consolidati di vicinanza culturale e di collaborazione economica.

La Primavera araba che ha coinvolto i Paesi dell'Africa mediterranea e anche le recenti vicende politiche di alcuni Paesi dell'Africa subsahariana come ad esempio la soluzione delle difficile crisi in Costa d'Avorio o l'elezione pacifica di un nuovo Governo in Nigeria, il più popoloso Stato del Continente, sono eventi che ci riguardano da vicino. Perché indicano che in questi Paesi sta nascendo una nuova domanda che riguarda il modello e gli obiettivi dello sviluppo.

Sono le richieste di una società civile che è cresciuta in questi anni e che chiede ai propri Governi una maggiore trasparenza nell'utilizzo delle risorse di cui dispongono i rispettivi Paesi. E quelle di milioni di giovani che hanno studiato, su cui gli Stati africani hanno investito e che vogliono entrare dignitosamente nel mondo del lavoro, senza essere costretti a emigrare da noi per svolgere mansioni dequalificate.

L'Europa e l'Italia hanno la possibilità e gli strumenti per rispondere a questa domanda. Potrebbe sembrare una fuga in avanti, viste le difficoltà in cui ci stiamo dibattendo, ma non è così. Sappiamo che il problema di fondo con cui ci confrontiamo è di dare adeguate prospettive di crescita e di investimento alle nostre aziende. Ma la soluzione non può essere trovata soltanto all'interno dei nostri confini.

I momenti migliori della crescita europea, negli ultimi decenni, hanno coinciso con un vasto allargamento di orizzonti: l'unificazione tedesca, l'ingresso nella Ue dei Paesi dell'Europa orientale o anche gli accordi di cooperazione allargata con i Paesi emergenti dell'Asia e dell'America Latina.

Ora c'è l'Africa, e non soltanto quella Mediterranea. Un continente che ha bisogno di sviluppare in modo sostenibile le proprie risorse agricole, energetiche, minerarie, costruire grandi infrastrutture, rendere abitabili e dotare di servizi le nuove metropoli in cui si concentra una quota crescente della popolazione, sviluppare l'attività manifatturiera e di trasformazione.

L'interrogativo, naturalmente, è se questi Paesi hanno le risorse per fare tutto questo. L'esperienza recente di molti di loro indica che la risposta è quasi sempre positiva. Basta guardare ai tassi di crescita di nazioni molto diverse tra loro come Angola, Ghana, Mozambico, Zambia, Etiopia o Mauritania. E al potenziale di altri come la Repubblica Democratica del Congo o la stessa Nigeria. È una crescita a cui le imprese di tutto il mondo possono contribuire.

Ed è in questa direzione che anche l'Europa e le aziende europee devono guardare con maggiore fiducia e convinzione. E la stessa cosa devono fare i nostri Governi. Gli strumenti già esistono, basta utilizzarli meglio, rafforzarli e renderli più efficaci.

Il quadro di riferimento è dato dai numerosi programmi di cooperazione a livello politico, sociale ed economico individuati dall'Unione europea e da altre organizzazioni come la Banca Mondiale per promuovere il rafforzamento della società civile, il miglioramento della governance e delle strutture amministrative statali e locali, l'istruzione, i servizi, le infrastrutture e la crescita della piccola imprenditoria.

Scopo di queste iniziative non è un'elargizione a senso unico che non avrebbe efficacia e che oltretutto non potremmo più permetterci.
È invece un gioco a somma positiva per creare un contesto in cui le nostre imprese possono investire con ottimismo e trovare a loro volta nuovi spazi di crescita.

Gli esempi di successo in questo senso, anche tra le aziende del sistema Italia non mancano. Ma non possono restare casi isolati. Devono invece essere uno stimolo per riaprire un orizzonte a un'Italia e a un'Europa che rischiano di non credere più al loro ruolo nel mondo.

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