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Questo articolo è stato pubblicato il 06 novembre 2011 alle ore 14:17.

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L'ammiraglio Giampaolo Di Paola (Imagoeconomica)L'ammiraglio Giampaolo Di Paola (Imagoeconomica)

Rimane un fronte difficile però è importante guardare attraverso la polvere sollevata dagli attentati. La realtà è di un indubbio progresso e la misura di quanto accade in Afghanistan non può essere data solo dagli incidenti e, purtroppo, dai morti. In realtà, questi attentati spettacolari sono una dimostrazione, per quanto paradossale, di debolezza non di forza. Sono l'unico strumento che i talebani hanno: ammazzano indiscriminatamente per cercare di convincere la popolazione afghana e la comunità internazionale che sono ancora forti e possono alla lunga prevalere. A me ricordano i piloti suicidi giapponesi, i kamikaze. Certo, erano spettacolari, ma se lei fosse stato negli Stati Uniti a quel tempo non avrebbe pensato «stiamo perdendo», semmai il contrario.

Si può veramente riuscire a trovare un'uscita dal tunnel in Afghanistan, dopo dieci anni di presenza occidentale?
Io credo di sì. E poi non dobbiamo nasconderci dietro una foglia di fico. Il vero sforzo in Afghanistan la comunità internazionale lo sta facendo ora. Dopo il 2001, per sette-otto anni non si sono destinate le risorse necessarie alla complessità del territorio afghano. In realtà è stato il 2009, dietro la spinta dell'allora presidente Bush, l'anno in cui è iniziato lo sforzo vero per aiutare gli afghani a tornare proprietari della loro nazione. E dopo due anni abbiamo già cominciato il processo di transizione che porterà gli afghani aessere interamente responsabili della loro sicurezza. Adesso sì abbialo le forze sufficienti: in questo momento impegnati nella costruzione della sicurezzaa ci sono 306mila afghani più 140mila alleati, ovvero la bellezza di circa 550 uomini. oggi un quarto della popolazione abita in zone in cui la sicurezza è in mano di afghani e a metà novembre inizierà il passaggio di una seconda tranche di distretti che al completametno porterà al 50% i cittadini sotto il controllo della sicurezza di connazionali.

Lei riesce a prevedere quando tutto il territorio sarà sotto controllo di afghani?
La previsione non la faccio io. La previsione l'hanno fatta un anno fa il presidente Obama, il presidente del Consiglio Berlusconi e gli altri leader al vertice Nato di Lisbona quando hanno fissato l'obiettivo della fine del 2014 per riportare il territorio sotto il controllo delle forze di sicurezza afghane. Certo la comunità internazionale dirà a Bonn al vertice di dicembre e a Chicago nel summit di maggio che l'impegno in forma diversa dovrà continuare perché un Paese come l'Afghanistam, dopo tanti anni di guerre interne ed esterne, non si rimette in piedi in 10 né in 15 anni. La comunità deve dare l'assicurazione che l'impegno continuerà al di là della fase di transizione. E istituzioni come Onu, Ue, Banca Mondiale, Fmi dovranno saper fornire gli strumenti necessari ad aiutare gli afghani.

Immagino sia inutile chiederle se avete qualche piano segreto per un intervento in Siria...
Lei me lo può chiedere, ma la Nato non c'entra niente con la Siria. E non abbiamo neanche piani segreti. Se le facessi vedere i miei cassetti o dentro la mia valigetta non troverà nessuna pagina con scritto Siria.

E immagino mi darà la stessa risposta sulle voci, rilanciate in questi giorni dal Guardian, della preparazione di un intervento in Iran.
Esatto. Sono sciocchezze.

Si parla molto negli ultimi tempi di smart defense, "difesa intelligente" che ottimizzi le risorse attraverso la specializzazione dei Paesi e l'integrazione delle risorse. Secondo lei funziona?
Smart defense non è sinonimo di specializzazione . Significa lavorare insieme, rendersi conto che ciascuno di noi in questo momento di grandi difficoltà economiche non è più in grado, ammesso che lo fosse prima, di potere gestir da solo la sua sicurezza. Bisogna entrare nell'ordine di idee che certe capacità vanno utilizzate insieme. Perciò la smart defense è un atto politico. Può forse apparire ironico dirlo ora, ma i ministri, come non hanno avuto paura di abbandonare la sovranità finanziara per accedere all'euro, così non devono avere paura di condividere la propria sicurezza per attuare una difesa integrata.

La lotta al cyberterrorismo è veramente divenuta una delle priorità della Nato?
Oggi le nostre società dipendono fortemente dallo spazio cibernetico, dal suo utilizzo legittimo e libero. Nel momento in cui venisse severamente minacciato, il nostro modo di vivere cambierebbe. È un importante bene comune così come lo erano gli oceani per navigare e per i commerci. La difesa di questo spazio comune è fondamentale. Non c'è operazione militare - dalla Libia al Kosovo o all'Afghanistan - in cui noi non utilizziamo il cyberspazio per le comunicazioni, lo scambio di dati, il posizionamento. L'Alleanza deve proteggersi e garantire l'uso libero e sicuro dello spazio cibernetico.

enrico.brivio@ilsole24ore.com
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