Il Sole 24 Ore
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17 gennaio 2012

E Cassius divenne Muhammad


C'è una medaglia d'oro di Roma 1960 sul fondo del fiume Ohio, dalle parti della città di Louisville, Kentucky, se la corrente non l'ha portata più giù verso Cairo dove l'Ohio, il "bel fiume" come è il significato della parola nel linguaggio dei nativi, gli irochesi, si tuffa nel Mississippi, 1579 chilometri dopo la sua nascita a Pittsburgh, Pennsylvania. O forse il Mississippi e i suoi battelli a ruota l'hanno trascinata fino a New Orleans e oltre, nel l'oceano Atlantico. Gli ottomila metri cubi d'acqua al secondo che l'Ohio fornisce al fiume più lungo del mondo possono aver trascinato anche quel piccolo detrito ed averne rosicchiato quel po' d'oro che la faceva luccicare.

Che fiume, l'Ohio! Alexis de Tocqueville, in La democrazia in America l'aveva raccontato così: «Il fiume Ohio segna la frontiera di due vasti stati. Questi due stati differiscono solo in un punto: il Kentucky ha ammesso gli schiavi, l'Ohio li ha tutti respinti da sé. Il viaggiatore, che navigando l'Ohio si lascia trasportare dalla corrente, naviga dunque fra libertà e schiavitù e può quindi vedere facilmente quale delle due sia più giovevole all'umanità.
Sulla riva sinistra del fiume la popolazione è rada, di tanto in tanto si vede una torma di schiavi che percorre con aria negligente campi semideserti, e la foresta primitiva compare continuamente. Dalla riva destra invece si alza un rumore confuso che proclama da lontano la presenza dell'industria; ricche messi coprono i campi, eleganti dimore annunciano il gusto e le cure del lavoratore, l'uomo sembra ricco e contento, e lavora.

Sulla riva sinistra dell'Ohio il lavoro si confonde con l'idea della schiavitù, sulla riva destra con quella del benessere e del progresso; là è degradato, qui viene onorato».
La medaglia l'ha buttata Cassius Clay, quando ancora non si era ribattezzato Muhammad Ali: si trovava dalle parte sbagliata del fiume, nel Kentucky, il paese dove l'erba è blu. Lui che aveva difeso l'America a pugni e colpi di lingua che facevano male anche più dei suoi cazzotti. Lo avrebbero chiamato «il labbro di Louisville». Era tornato in America da vincitore dei Giochi, provò a entrare in un ristorante di Louisville: sono Cassius Clay, campione olimpico, e anche se lì c'è scritto «white people only», riservato ai bianchi, non mi cacceranno, si disse.
Lo cacciarono.

Fu allora che pensò quel che Tommie Jet Smith avrebbe dichiarato otto anni dopo, quando volò tra le nuvole di Città del Messico, oggetto identificato, e prese a pugni lo smog: quando vinciamo o facciamo qualcosa di buono siamo americani, altrimenti restiamo negri. Vecchia America: Michael Jackson canticchiava, Barack Obama era un bambino.
Al tempo in cui Tommie Jet pensava e diceva questo, Cassius Clay, che ormai era Muhammad Ali, era renitente alla leva: aveva rifiutato di "servire la patria" (quale patria?) nelle paludi del Vietnam; non ho niente contro i vietcong, aveva detto, e quelli non mi hanno nemmeno mai chiamato negro.

Cassius Clay cominciò a tirare di boxe per caso: da bambino, cercando la bici che gli era stata rubata, finì in una palestra. E salì sul ring. Ci sarebbe salito da professionista 61 volte vincendo 56. Sarebbe stato campione del mondo dei pesi massimi, cioè il massimo dei campioni della boxe, dal 1964 al 1967, dal 1974 al 1978 e per un'ultima breve parentesi ancora nel 1978. Fu protagonista di incontri che hanno fatto la storia del pugilato, come il match di Kinshasa contro George Foreman (Quando eravamo Re) o come il «Thrilla in Manila», il terzo match contro Joe Frazier. La figlia di Alì, Laila, è stata campione del mondo dei supermedi e s'è ritirata imbattuta in 24 incontri, con 21 kappaò.
Muhammad Ali ha acceso il braciere olimpico ad Atlanta 1996: la sua mano tremante per il morbo di Parkinson ha emozionato il mondo. È nato il 17 gennaio 1942: questo martedì compirà 70 anni.


17 gennaio 2012