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Questo articolo è stato pubblicato il 05 febbraio 2012 alle ore 08:11.

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di Michele Tiraboschi
e Paolo Tomassetti

Le riforme del lavoro non nascono solo per legge e decreto. Molto è stato fatto, in questi ultimi anni, dalla contrattazione collettiva, specie aziendale. Anche in tempi di crisi si sono registrate soluzioni innovative nella prassi del nostro sistema di relazioni industriali, che vanno ben oltre la difesa ad oltranza dello status quo e dei posti di lavoro esistenti. Accanto alla introduzione di regimi di orario ridotto – Cig e contratti di solidarietà – le risposte delle aziende al generale appiattimento degli indici di crescita passano attraverso la contrattazione della flessibilità oraria. Il perdurare degli effetti della recessione e le difficoltà di disegnare programmi produttivi a lungo termine hanno indotto le aziende, soprattutto della meccanica, a sperimentare strategie di efficientamento degli impianti, soprattutto laddove gli stessi risultino caratterizzati dalla sequenzialità delle operazioni che si svolgono per la realizzazione dei prodotti finali.
La crisi economica ha così sancito la complementarietà tra tecniche di ingegneria gestionale e relazioni industriali perché la introduzione di modelli organizzativi innovativi può avvenire solo con accordi sindacali. Ovvero attraverso il pieno esercizio delle deleghe legali in favore della contrattazione collettiva, talvolta abilitata a derogare anche alle norme di legge. E non solo in Fiat. Gran parte delle aziende dell'indotto, ad esempio, si sono adeguate ai modelli produttivi del proprio partner commerciale. Sono diffusi nell'automotive gli accordi integrativi che prevedono l'utilizzo delle linee di produzione per 24 ore giornaliere e per 6 giorni la settimana, comprensivi del sabato, con uno schema di turnazione articolato in 18 turni settimanali e riposi compensativi a scorrimento.
L'anomalia del caso Fiat tale non più sarebbe vista nel dibattito pubblico se solo si avesse la pazienza di raccogliere e monitorare la contrattazione collettiva di secondo livello. Non di rado aziende e sindacati si sono spinti nella negoziazione di una articolazione dell'orario di lavoro in 20 turni settimanali, prevedendo l'avvicendamento di 5 squadre di lavoratori su 3 giorni consecutivi di lavoro – comprensivi della domenica – e due di riposo. Tale organizzazione dei tempi di lavoro comporta una riduzione dell'orario pari a 8 ore medie settimanali, con conseguente prestazione media effettiva pari a 32 ore settimanali procapite a fronte di 40 retribuite. In altre parole, a differenza di quanto alcune analisi approssimative inducano a pensare, la riduzione dell'orario di lavoro conseguente alla concessione di riposi compensativi per i turnisti non comporta mai, almeno nella contrattazione censita dal gruppo di ricerca di Adapt (www.adapt.it), la riduzione della retribuzione: la stessa continua ad essere corrisposta considerando un orario di 40 ore settimanali.
Non solo. Per le attività lavorative svolte di sabato e di domenica, alcune intese riconoscono maggiorazioni fino al 125% della paga base nei turni più disagiati, quali quelli che vanno dalle 22 di sera alle 6 del mattino. Maggiorazioni che sono soggette al regime agevolato di tassazione e contribuzione introdotto nelle precedenti legislature e confermato dai recenti provvedimenti per lo sviluppo e la crescita approvati dal governo Monti.
La lettura degli accordi integrativi aziendali è certamente utile a riscoprire il valore dell'articolo 8 della manovra finanziaria di ferragosto che affida caso per caso alla contrattazione aziendale la modernizzazione della legislazione del lavoro Italiana: il valore aggiunto del provvedimento sta proprio nel carattere integrativo dei compromessi che genera, perché la concessione dei lavoratori in termini di flessibilità deve necessariamente essere compensata con una qualche forma di contropartita e comunque solo in funzione di obiettivi di sviluppo o contenimento della crisi.
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