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Questo articolo è stato pubblicato il 22 luglio 2012 alle ore 14:54.

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Mi cambio, indosso il casco, il numero, la maglia della mitica Pro Patria di Milano, le scarpette. Inforco la bici e comincio a pedalare lungo la strada che costeggia il lago. Il percorso prevede due giri da 90 km con quattro salite sulle colline attorno a Zurigo. Due salite hanno un nome che è tutto un programma: the Beast, la bestia, e Heartbreak Hill, la collina dell'infarto. Cerco di andare avanti controllando le pulsazioni del cuore dal cardiofrequenzimetro in modo da avanzare all'80% della potenza, il segreto per non scoppiare. E poi inizio subito a bere e a mangiare per non andare in riserva di energia. Il primo giro, a parte un temporale sulla seconda salita, va avanti liscio. Chiudo in tre ore e pochi minuti a 30 km di media. All'inizio del secondo giro però comincia a grandinare. Vengono giù chicchi d'uva ghiacciati, tanto grandi che non riesco a tenere le mani sul manubrio dal dolore dei colpi. Procedo da solo senza vedere più niente. Mi viene voglia di mollare, è troppo dura. Però continuo a pedalare, qualcosa dentro scatta, e continuo. Fino a quando la grandine smette e ricomincia la salita...

La stanchezza comincia a farsi sentire. E con lei anche i primi dolori muscolari. I chilometri ancora da fare diventano eterni. Mi succede sempre anche nelle maratone, quando non ce la fai più a un certo punto scatta qualcosa, un'energia interiore. Io lo chiamo «il mio rosario dinamico», una sorta di benessere che arriva quando sei morto e tu continui, continui imperterrito ad andare avanti lieve senza sapere e senza chiederti da dove vengono le forze. Termino la seconda parte della gara e sono le tre del pomeriggio. Non ho mai apprezzato come ora la sensazione che si ha quando si mettono i piedi al suolo. Adesso c'è il sole. E tutta la maratona ancora da fare. Esco dai box e prendo a correre con il mio ritmo solito. Il fiato c'è. Ma le gambe non vanno. E ci sono quattro giri da fare attorno al lago. Ci sono dei ponti pedonali da attraversare e quasi nessuno riesce a fare la piccola salita di corsa. Tutti di passo. Sembriamo un esercito di fantasmi che continua ad andare avanti in questa strana gara che somiglia ad un'agonia. Mi incitano i miei. «Non mollare! Dai, vai avanti papà». Cammino e poi corro e poi cammino e poi corro di nuovo. Tutto di testa. All'ultimo giro, quando mancano 10 km incontro un inglese, Lee, che sta peggio di me. Barcolla. Mi fermo, gli dico: «Andiamo all'arrivo insieme».

E così facciamo. Il tempo passa e la fatica si divide. E questa vittoria che sembrava impossibile si avvicina. Finalmente. Arriviamo al trotto all'arrivo trascinati da invisibili angeli con le corde. Stanchi, morti ma inspiegabilmente lievi e leggeri. Abbracci. Baci. Medaglie. Foto. Sorrisi.

Dopo 14 ore e 16 minuti di gara. Mi sento vicino a tutte queste persone con cui oggi ho condiviso un lungo pezzo di strada. Un'esperienza di forza interiore che sarà utile ricordare nella vita di tutti i giorni. Il vero «Ironman» che ci aspetta ogni lunedì mattina.

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