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Questo articolo è stato pubblicato il 26 settembre 2012 alle ore 18:30.
L'ultima modifica è del 26 settembre 2012 alle ore 13:53.
È un altoforno ma è diventato una polveriera. Il sito numero 5, il più grande, da 8mila tonnellate di produzione, dell'Ilva di Taranto è da sempre il simbolo di questa acciaieria che è la più importante d'Europa. La scelta dei custodi di imporre da subito la chiusura dell'altofonro numero 5 è una decisione dirompente che assume un impatto, anche simbolico, di fortissima drammatizzazione.
Quella dell'Ilva è una vertenza destinata a un piano inclinato che porta dritto verso la chiusura di un impianto da oltre 12mila addetti, il più rilevante sito industriale del Sud, area, come dimostrano anche i dati diffusi oggi dalla Svimez, destinata a un tragico scollamento dalla media nazionale di sviluppo. Il destino insomma rischia di essere un declino isolato e inesorabile che, ancora di più, spacca l'Italia in due.
È cruciale che questa deriva venga riportata su binari di più razionale buonsenso al fine di comporre due interesse vitali e assoluti come la difesa della salute e il diritto al lavoro. Bisogna dare il tempo al Governo – e al ministero dell'ambiente – di produrre l'Autorizzazione ambitale, unico docvumento formale in grado di stabilire la compatibilità di produzioni inquinanti rispetto agli standard europei, nazionali e locali.
L'accelerazione imposta dai custodi si carica di una responsabilità immensa. Una triste storia di disperazione tra chi perde la salute e chi deve perdere il lavoro va capovolta in occasione di sviluppo gestita da un Paese che intende riconvertire le produzioni in chiave sostenibile. Questa stessa scelta è un atto di sviluppo, un acceleratore di progresso e una garanzia di occupazione. È un passo che coinvolge l'impresa, i lavoratori, il governo, l'Europa. Ha bisogno dei suoi tempi per quanto, naturalmente, accelerati. Non della fretta dei paladini di una crociata ambientalista combattuta sulla pelle di chi oggi sale disperato sulle ciminiere.
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