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Questo articolo è stato pubblicato il 18 marzo 2013 alle ore 15:33.

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La giustificazione del conflitto con la minaccia delle armi chimiche irachene non ha retto la prova dei fatti. E neppure quella che Saddam appoggiasse i radicali islamici: in questo il raìs aveva un ruolo marginale. «Ci attaccheranno anche se consegneremo tutti i nostri kalashnikov», disse alla vigilia Tarek Aziz. Ricordo che il vice di Saddam continuò a parlare senza neppure alzare lo sguardo alla diretta della Cnn: all'Onu il segretario di stato Colin Powell stava brandendo la famosa "pistola fumante", le foto delle armi di distruzione di massa.

Il calcolo più sbagliato di Washington fu pensare di soggiogare l'Iraq con 120mila uomini, di cui solo la metà operativi, e di eliminare ogni simulacro del vecchio regime liquidando l'esercito iracheno, una decisione dell'ineffabile proconsole Paul Bremer che precipitò il Paese nell'anarchia: in realtà gli americani non hanno mai occupato l'Iraq, se con questo termine si vuole indicare il controllo del territorio.

Gli Stati Uniti hanno gestito la controguerriglia, alcuni centri di detenzione e tortura come Abu Ghraib, il petrolio e i rifornimenti strategici dell'Iraq ma non l'hanno mai amministrato perché quelli che dovevano farlo non mettevano mai piede fuori dalla Green Zone. Riuscirono però a buttare via centinaia di miliardi di dollari, come dice il rapporto Stuart Bowen al Congresso.

Un giorno, nel 2004, dei sapienti banchieri nella Zona Verde mi spiegarono che avrebbero messo in Saadoun Street un cash dispenser per le carte di credito. Lì vicino le milizie sciite di Muqtada Sadr, le stesse che poi avrebbero impiccato Saddam, stavano preparando una rivolta. Due giorni dopo a Saadoun Street vidi una cassaforte sradicata da una banca che giaceva sventrata sull'asfalto insieme ai cadaveri.

Per anni Baghdad e le città irachene sono rimaste come tramortite da una violenza inaudita, con una colonna sonora incessante di colpi di mortaio ed esplosioni di autobombe e kamikaze. Oggi l'Iraq, con tre milioni di barili al giorno, è il secondo produttore Opec: un Paese teoricamente ricco, parzialmente ricostruito, ma la nazione irachena, se mai c'è stata, non è rinata.

Il raìs iracheno peraltro forse sarebbe ancora al suo posto se prima di sfidare gli americani non avesse deciso nel settembre del 1980 di attaccare l'Iran di Khomeini, un conflitto di otto anni con un milione di morti da cui uscì con un debito di 90 miliardi di dollari, in parte prestati da chi gli vendeva le armi, l'Occidente e la Russia, e in parte dalle monarchie del Golfo. Strangolato dai debiti, abbandonato dagli emiri delusi dalla guerra, decise per rifarsi di invadere il Kuwait. Fu così che iniziò la parabola discendente del clan di Tikrit e il crollo di un Iraq sottoposto a sanzioni per 12 anni.

Saddam negli anni 80 era il portabandiera dei sunniti schierati contro la teocrazia iraniana. Questo scontro si è protratto con la guerra del 2003 quando gli sciiti iracheni per prendere il potere a Baghdad si allearono con gli americani. E adesso attraversa il conflitto in Siria dove la minoranza alauita, setta eterodossa dell'Islam, è appoggiata da Teheran e dagli Hezbollah libanesi nella battaglia contro arabi e turchi.
Mai come oggi è evidente il confronto tra Mezzaluna sunnita e Mezzaluna sciita, di cui l'Iraq è il secolare campo di battaglia e la Siria il suo prolugamento: qui si combatte la rivincita della sconfitta dei sunniti a Baghdad.

In questi giorni ricordiamo un anniversario che è una sorta di paradosso, coincide con quello dei due anni dall'inizio della rivolta siriana e spiega il fallimento dei regimi travolti dalla primavera araba. Ma suggerisce pure una scomoda considerazione: dopo la fine dei raìs e della loro crudele retorica nazionalista e panaraba, i nuovi governi, dominati ai partiti islamici, non sono in grado di garantire l'unità dei Paesi che hanno ereditato.

L'incerto futuro dell'Iraq forse lo si poteva intuire anche il 9 aprile del 2003, quando i marines entrarono in Piazza Firdous e chiesero della birra al bar del Palestine. Fuori il robusto Khaddoum al Jabouri tentava con un maglio di sbriciolare la statua del dittatore. Eravamo non più di duecento ad assistere all'evento. Ma nell'obiettivo delle telecamere questa piccola folla apparve una moltitudine traboccante sugli schermi del pianeta. Al tramonto il simbolo di un regime sanguinario fu abbattuto dai genieri americani con funi d'acciaio: era questa l'immagine che si voleva diffondere sui media, da incorniciare negli eventi del millennio. Non era però la fine della storia ma soltanto l'inizio.

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