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Questo articolo è stato pubblicato il 13 maggio 2013 alle ore 12:45.

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Vallanzasca – uomo duro nei frapporti personali al punto che una grazia gli fu respinta dall'allora ministro della Giustizia Roberto Castelli anche per il fatto che il tratto del suo carattere era rimasto pressoché immutato nel tempo a fronte di innegabili responsabilità assunte per le attività criminali e ben 11 anni di carcere duro – tra alti e bassi è riuscito a ricostruire un filo fuori dal penitenziario, nel tentativo di riannodare la rinascita di ciò che la vita gli concederà ancora.

In quella Milano che ha visto dagli anni Sessanta agli anni Ottanta passare questi personaggi e altri ancora, legati a loro come satelliti, oltre che assistere a una media di circa 150 omicidi all'anno per diverso tempo, non poteva mancare Angelo Epaminonda, ora sparito dai radar perché vive con la sua famiglia in una località segreta dopo l'arresto e il pentimento.

Catanese, di origini umili (altro tratto distintivo della maggior parte dei delinquenti dell'epoca) e trasferitosi da ragazzo con la famiglia a Cesano Maderno, entra ben presto nel giro della Milano che tira coca, cambia donne come i calzini e fa della mala una ragione di vita. Diventa il braccio destro di Turatello, il boss dalla faccia d'angelo, con il quale si addestra nelle rapine ma finisce ben presto per gestirne le bische, insidiarne l'autorità, fino a diventare un punto di riferimento per la mafia catanese. Resta sulla sua coscienza – tra le altre morti violente - la strage del 1979 in un ristorante milanese nel quale presero la vita 8 persone ma non farà in tempo a vedere, nonostante le radici alle quali anche lui ha contribuito, quel che accadrà a Milano e in Lombardia a partire dagli anni Novanta.

Non si può certo dire che la città e la regione possano avere nostalgia del poker Lutring-Turatello-Epaminonda-Vallanzasca ma si può con altrettanta certezza affermare che la scomparsa di morti ammazzati e di personaggi che della mediaticità facevano un vanto da esibire sotto perenni riflettori, non ha certo migliorato le cose.

Anzi. Quella criminalità violenta, esibita, pacchiana, ricca, sconsolatamente romantica per taluni, è stata sostituita dalle holding del crimine organizzato che – sotto la regia dei quattro ricordati sopra – erano solo all'esordio. Cosa nostra che pure, come abbiamo visto, si era affacciata nei rapporti di alcuni di quei criminali, è stata soppiantata rapidamente dalla forza travolgente della ‘ndrangheta calabrese.

Le rapine, i rapimenti di persona (che in Lombardia si affacciano proprio grazie al "ponte" della mala aspromontana), la gestione delle bische e della prostituzione hanno lasciato velocemente il passo al narcotraffico gestito in grande stile da cosche che fanno di tutto per operare nell'ombra e al gioco d'azzardo diventato business planetario. La prostituzione no, quella continua a restare un affare nel quale la criminalità organizzata entra con diffidenza a causa di paradossali codici di (dis)valori mafiosi.

Business ampiamente accompagnati dal riciclaggio di fortune miliardarie (derivanti proprio dal narcotraffico) nell'edilizia, nella ristorazione, nel commercio, nel turismo, nelle attività commerciali e in ogni altra forma di economia legale i cui capitali inquinati sfuggono ai controlli.

La differenza tra la Milano criminale di quegli anni e quella di oggi è che allora i morti restavano stecchiti per strada, i banditi facevano cantare i mitra e facevano scorrere fiumi di champagne mentre oggi le strade sono sgombre da cadaveri e i mafiosi fanno cantare i soldi che tutto comprano e corrompono. A partire dalla politica, credito e professionisti. Quel che resta sono i fiumi di champagne, la coca e le belle donne: oggi come allora i delinquenti non se li fanno mai mancare.

Quel che manca invece è la piena consapevolezza, nell'opinione pubblica, che questa criminalità è mille volte più forte di quella. Anche se non fa rumore, mangia parti sane di economia e società.

http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com

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