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Questo articolo è stato pubblicato il 28 maggio 2013 alle ore 06:37.

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Forse, nelle complicate alchimie che presiedono al funzionamento del corpo industriale e creditizio di un Paese, nel minor premio al rischio riscontrato in Spagna potrebbe avere un peso il problema del buon o cattivo funzionamento del cuore, simbolico e concreto, di ogni attività di impresa: il risultato netto finale, quanto resta all'imprenditore dopo che, avendo corso il rischio e avendo sostenuto ogni costo industriale e finanziario, paga le tasse allo Stato. Un cuore che può funzionare bene. O che può risultare così sotto pressione da essere poca, pochissima, cosa. Ebbene, in Spagna, secondo il Doing Business 2013 di World Bank la tassazione complessiva sul reddito da impresa è pari al 38,7 per cento. In Italia questa quota assume una entità tale da sembrare quasi uno strumento metafisico per colpire il peccato di creazione di ricchezza in terra: 68,3 per cento. Nella Germania, Paese spesso ritenuto affine al nostro per la centralità del suo sistema manifatturiero nell'assetto complessivo della nazione, la tassazione si ferma al 46,8 per cento. Ventun punti e mezzo in meno rispetto all'Italia. Una asimmetria enorme.
Dunque, il cuore rappresentato dal reddito finale è più piccolo e più malfermo. E, con questo profilo meno robusto e più sfibrato rispetto ai concorrenti europei, deve presiedere alle funzioni di un corpo reso insieme più appesantito e più fiacco da altri due elementi fisiologici che assumono in Italia una dimensione patologica: il costo della bolletta elettrica, che secondo Nomisma Energia è il 40% più caro della media europea; la burocrazia che, stando alla Banca Mondiale, comporta un aggravio strutturale dei costi della logistica, una attività essenziale per una economia di trasformazione, stimabile nel 20 per cento.
Perseverando nella metafora del sistema industriale come un organismo, ecco che la giustizia non può che essere assimilata al rimedio, alla cura ora omeopatica ora antibiotica di quanto nel tessuto vivo dell'economia sta sperimentando una patologia, piccola o grande. Ci sono i casi estremi, come le bonifiche mancate a Taranto perseguite in maniera diretta dai magistrati. E ci sono gli effetti indiretti, come l'azione degli stessi che paralizza l'attività e modifica dall'interno gli assetti societari dell'Ilva.
Poi, però, ci dovrebbero anche essere i casi normali. La quotidianità. L'artigiano di Bergamo alle prese con un cliente che non paga. I dirigenti di una media impresa di Torino che vogliono denunciare un concorrente accusandolo di avere rubato un brevetto. Il piccolo imprenditore di Pisa furibondo con un fornitore che non ha rispettato un contratto. Tutti questi si rivolgono alla magistratura. La quale, appunto, dovrebbe trovare il rimedio. Peccato che, da noi, l'esercizio di questa ars medica abbia tempi estenuanti. Sempre secondo il Doing Business 2103, per avere ragione di un contratto disatteso in un tribunale italiano ci vogliano 900 giorni, più altri 270 giorni per fare attuare la sentenza; in Germania ne bastano rispettivamente 310 e 55; in Francia 325 e 60; in Spagna 280 e 180.
Tre anni e mezzo nelle aule del tribunale. Da noi, dunque, per avere giustizia ci vuole così tanto tempo che, alla fine, magari l'operazione è riuscita (l'imprenditore ha vinto la causa), ma la paziente (la sua impresa) nel mentre è morta in silenzio, uccisa da una crisi che non perdona e da un Paese che spesso non ama la sua cultura e la sua anima industriale.
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