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Questo articolo è stato pubblicato il 06 giugno 2013 alle ore 07:45.

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Per restare informato degli avvenimenti che sono oltre il controllo delle sue spie, Abu Ali guarda al Jazeera e al Manar, la tv di Hezbollah. In un angolo il computer è connesso con Facebook. Sami aveva solo il transistor Sony Three Band.

Sui muri, anche i simboli della sua parte sono ovviamente diversi da quelli che esibiva Sami: gli ayatollah Khomeini e Khamenei, l'emblema araldico di Hezbollah con il kalashnikov al posto dello scudo, l'imam Ali e suo figlio Hussein ucciso dai sunniti 1.300 anni fa. Foto dei martiri dell'ultima battaglia in corso in Siria. Si dice siano già 1.500 i caduti di Hezbollah sul fronte di Qusair, che non è in Libano. Fra i compiti di Abu Ali c'è anche quello di comunicare alle famiglie la morte in combattimento di un figlio o un marito. "In questo quartiere l'ho già fatto cinque volte. Parliamoci chiaro, non siamo andati in Siria per difendere l'esercito di Assad ma le nostre linee di rifornimento. Se i salafiti sunniti le prendono, noi Hezbollah siamo circondati. Per noi è una minaccia esistenziale". Non lo sa, ma Abu Ali parla come un generale israeliano.

Nel suo ufficio non ci sono simboli del Libano. C'è la bandiera palestinese ma non quella libanese. L'unica cosa che davvero unisce i libanesi, oltre la tradizione culinaria, sono gli affari. Secondo il Fondo Monetario Internazionale l'economia non va molto bene. Fra il 2008 e il 10 cresceva dell'8%, poi è crollata all'1,5. Gli investimenti internazionali del più globale dei Paesi arabi, sono precipitati del 68%. Ma le banche non hanno debiti: dal 2007 al 2012 i depositi sono passati da 77 a 124 miliardi di dollari, gli assets da 82 a 152, dice la Banca centrale.

Qui in Libano le gru riprendono a girare quando i miliziani non hanno ancora tolto i caricatori dai loro mitra e si fermano solo quando si ricomincia a sparare con qualcosa di più potente. Secondo George Qorm, economista ed ex ministro delle Finanze, "nonostante la ricchezza e la prosperità siano concentrate nelle mani di pochi e in alcuni quartieri lussuosi della capitale, l'economia libanese funziona con o senza un governo".

Infatti un governo non c'è. Ma le gru continuano a portare materiale da costruzione in cima ai nuovi grattacieli; e si spara a Tripoli, nella Bekaa e di notte in qualche quartiere periferico di Beirut (per i canoni libanesi non è ancora guerra). Come era accaduto durante la guerra civile dal 1975 al '90, la classe politica ha congelato la democrazia, sia pure settaria, che distingueva il Libano dal resto del Medio Oriente. Le elezioni parlamentari previste a giugno sono state rinviate di 18 mesi. Per ora. Sarebbe stato difficile fare una campagna elettorale in un Paese così pieno di armi e con la guerra siriana alle porte. Il premier incaricato Tammam Salam (nella spartizione costituzionale del potere il presidente del consiglio deve essere sunnita, quello del parlamento sciita, il capo dello Stato cristiano…) cercherà di formare un esecutivo di unità nazionale con tutte le 17 sette musulmane e cristiane del Paese.

La guerra è una giustificazione ammissibile per sospendere l'esercizio del voto. Ma c'è di più. Per com'è fatto e per sopravvivere, il Libano non può avere un vincitore: sul campo di battaglia o nelle urne. Tutte le volte che qualcuno ha tentato di prevalere, la guerra o il voto hanno prodotto più instabilità di prima. Ognuno in Libano deve avere la sua quota di vittoria.

"Sa che il 90% delle spie che entrano in Libano si presentano come giornalisti?", chiede Abu Ali senza per questo voler essere minaccioso. Come la città, Hezbollah controlla anche il suo aeroporto. Chiunque arriva è registrato negli archivi del movimento sciita e, eventualmente, in quelli degli apparati di sicurezza dello Stato. Il vero padrone di Beirut è Hezbollah. Forse è anche per questo che una nuova guerra civile sembra inevitabile.

"Non è cambiato nulla, è lo stesso clima di guerra che respiravamo nell'aprile del 1975. Ma allora era più semplice", è la versione degli avvenimenti di Abu Ali che c'era già, a combattere i falangisti cristiani. "Era una guerra ideologica, sinistra contro destra, c'era la questione palestinese. Noi stavamo a Ovest e i cristiani a Est. Oggi ci prepariamo a una guerra religiosa fra musulmani vecchia di 1.400 anni. Noi abbiamo in casa i sunniti e loro noi sciiti".

A Est, a circa 600 metri dall'ufficio di Bachoura c'è la via di Damasco, un tempo linea del fronte, ora intasata di veicoli. Poi incomincia Ashrafihe e la Beirut cristiana. Quella non è un problema. Con Michel, il suo equivalente delle Forze Libanesi maronite, gli ex falangisti, Abu Ali prende il caffè quasi tutti i giorni e scambia informazioni. "Quelli che mi preoccupano", conclude, "sono i salafiti sunniti, a 300 metri da qui, a Ovest".

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