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Questo articolo è stato pubblicato il 04 luglio 2013 alle ore 07:34.

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In Egitto c'è un tradizionale anti-americanismo, rinfocolato l'altro ieri dalle dichiarazioni dell'ambasciatrice al Cairo, a favore di Morsi. I veri alleati degli Stati Uniti in Egitto sono comunque i militari che ogni anno ricevono un aiuto diretto da 1,3 miliardi di dollari dal Pentagono: l'assegno di quest'anno era stato staccato solo tre settimane fa. Loro non possono fare a meno degli americani per restare una forza armata decentemente moderna; gli americani hanno bisogno di loro per garantire la sicurezza del Canale di Suez e l'intoccabilità del trattato di pace con Israele.
Ma il ritorno al potere dei militari – perché saranno loro a comandare, non il presidente della Corte costituzionale né elBaradei - significa la fine della trattativa fra Egitto e Fondo monetario internazionale. Da due anni l'Fmi offre un credito da 4.8 miliardi di dollari, chiedendo in cambio riforme economiche strutturali e democratiche. Il precedente militare al potere, il generale Tantawi, aveva rotto il negoziato, convinto che si trattasse di un'interferenza sulla sovranità nazionale egiziana. La vittoria elettorale di Morsi e dei Fratelli musulmani con una visione economica più moderna, aveva dato un nuovo impulso alla trattativa e il credito era ormai vicino. E' quasi certo che con il ritorno dei generali, di Fondo monetario non si parlerà per molto tempo.

La forza d'urto dei Fratelli musulmani
In piazza Tahrir si è comunque fatto festa fino a notte e oltre, come se fosse la prima volta che nella piazza diventata ormai totem, si celebrava la libertà conquistata. Gli unici botti erano quelli gioiosi dei mortaretti delle opposizioni: quelli che non erano stati sparati poco più di un anno fa, dalla stessa piazza, per festeggiare la cacciata dei militari.
A una quindicina di chilometri di distanza, in un'altra piazza della città, nel quartiere di Nasr City, altre migliaia di manifestanti ascoltavano in silenzio le notizie. Erano venuti per sostenere Mohamed Morsi e celebrare la "legittimità" del suo potere. Dai grandi schermi sulla piazza hanno invece assistito alla telecronaca di un colpo di stato, o a qualcosa di simile. Nessuno sa esattamente dove sia ora Morsi. Forse è ancora nel palazzo presidenziale di Heliopolis, circondato da giorni dai mezzi blindati dell'esercito. Qualche ora fa i militari hanno elevato barriate ancora più alte, e aggiunto altro filo spinato, come per impedire che i suoi sostenitori lo prendano d'assalto nel tentativo di liberare il loro presidente rimasto senza potere ma con tanto seguito.
Anche la grande piazza di Nasr City è stata circondata dai mezzi militari. Si racconta di primi scontri fra i militanti della fratellanza, che non sarebbero disarmati, e l'esercito. E non si hanno notizie dal resto dell'Egitto: da Alessandria e Port Said, dove da mesi si registrano i peggiori incidenti del Paese; nell'Alto Nilo dove il consenso per l'Islam politico è quasi plebiscitario.

Prendere il controllo dei centri nevralgici del Cairo e mettere in sicurezza il Canale di Suez, il grande asset strategico ed economico del Paese, sono state la parte più facile dell'operazione di al-Sisi. Da oggi e nei prossimi giorni si capirà se l'invocazione alla Jihad dei sostenitori di Morsi nella piazza del Cairo e altrove, era un annuncio o solo una disperata protesta. Ieri sera i botti di piazza Tahrir erano a salve, i prossimi potrebbero non esserlo più.

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