Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 18 luglio 2013 alle ore 06:37.

My24

Lo stellone dell'ingegnere brilla più che mai in quegli anni. A Milano è il costruttore numero uno. È legato a filo doppio al Psi di Bettino Craxi. All'ufficio urbanistica del Comune è considerato di casa. Come emergerà dallo scandolo delle aree d'oro, con una variante al piano regolatore i terreni agricoli acquistati da Ligresti alla periferia di Milano sono stati trasformati in suoli edificabili, con un aumento di valore esponenziale.
L'impero si espande all'ombra delle scatole cinesi, ma ha un tallone d'Achille: l'eccessiva esposizione debitoria. Il problema di Virgillito che è stato quello di Ursini ora rischia di travolgere anche il suo successore. Per di più il mercato immobiliare ha smesso di crescere e la Cariplo, che finanzia Ligresti, teme di non poter recuperare il suo credito. L'ingegnere si rivolge a Craxi, ormai ago della bilancia della politica italiana, che preme sulla Bnl perché intervenga a favore del costruttore. Presidente della banca di Via Veneto è il socialista Nerio Nesi, che oppone il proprio rifiuto. Non resta che Enrico Cuccia. Nel 1988 è in corso il processo di privatizzazione di Mediobanca, il cui controllo fa capo a Comit, Credit e Banco di Roma, le tre banche pubbliche d'interesse nazionale. Cuccia è costretto a negoziare con i partiti di governo, ma Craxi è un osso duro, vuole che Mediobanca prenda Ligresti sotto la sua ala protettiva. Cuccia capisce che quello è il prezzo della privatizzazione. Oltre tutto Sai è azionista della lussumburghese Euralux, che detiene circa il 5% di Generali, la principale partecipazione di Mediobanca. Da quel momento i veti politici cadono e Ligresti entra nel salotto buono di Via Filodrammatici accanto agli Agnelli, ai Pirelli, agli Orlando. L'ostracismo cessa. La Premafin, la holding, è quotata a Piazza Affari con una valutazione di mille miliardi di lire, quattordici volte l'utile del 1989.
Poi esplode Tangentopoli e ricominciano i guai. Il 16 luglio 1992 l'ingegnere è trasterito a San Vittore per ordine della Procura, che lo accusa di aver strappato appalti alla Metropolitana milanese in cambio di tangenti. Un'inchesta tira l'altra: scoppia lo scandalo Eni-Sai in cui sono coinvolti anche Craxi e il segretario amministrativo della Dc Severino Citaristi. La posizione di Ligresti si aggrava. L'uomo piomba dall'altare nella polvere. Le condanne gli fanno perdere i requisiti di onorabilità, non può più stare nel consiglio d'amministrazione della Sai. Il bastone di comando passa alle figlie: Jonella, che entra anche nel Cda di Mediobanca, e Giulia. Entrambe saranno risucchiate nel gorgo della giustizia.
La situazione finanziaria del gruppo ricomincia a indebolirsi. Ligresti sembra condannato a un declino inesorabile. Poi un nuovo colpo di scena. Nel luglio 2001 squilla il telefono. È Vincenzo Maranghi, il quale, morto Cuccia, guida Mediobanca in completa solitudine. Montedison è sotto Opa e prima che cada nella mandi di Edf e Fiat bisogna sottrarle Fondiaria, il gruppo assicurativo fiorentino che detiene un pacco azionario strategico per l'autocontrollo di Mediobanca. Ligresti è dunque l'uomo giusto al momento giusto. Il contratto di cessione è firmato una domenica mattina in Foro Buonaparte. L'ingegnere s'impegna a sborsare più di un miliardo di euro senza Opa. La Consob si oppone invano.
Dopo neanche due anni Fondiaria è già tutt'uno con Sai. L'ingegnere si accolla nuovi debiti, ma è ormai troppo grande per fallire. Per di più ha di nuovo al suo fianco Via Fiolodrammatici, ovvero i maggiori istituti di credito, e il gradimento politico di Silvio Berlusconi. Maranghi si illude di poterlo mettere sotto tutela. Progetta un aumento di capitale che dovrebbe diluirne il peso, rafforzando il patrimonio di Fonsai. Ma da lì a poco è costretto a lasciare Mediobanca per l'ostracismo del presidente di Capitalia, Cesare Geronzi, e del governatore di Bankitalia, Antonio Fazio. Ligresti diventa così padrone assoluto di un impero dai piedi d'argilla. La crisi finanziaria e l'ingordigia della famiglia, con i trasferimenti di ricchezza dai piani bassi ai quelli alti della catena di controllo, daranno al gruppo assicurativo il colpo di grazia. E a nulla varranno i finanziamenti di UniCredit e Mediobanca per salvarlo dal baratro.
© RIPRODUZIONE RISERVATADA CATANIA A PIAZZA AFFARI Nel 1901 Michelangelo Virgillitto, nel 1913 Antonino La Russa, nel 1932 Salvatore Ligresti: a Paternò, grosso centro dell'entroterra catanese, originano tre vicende personali che s'intrecciano a Milano. Assieme ad Enrico Cuccia (nato a Roma da famiglia palermitana) e a Michele Sindona (messinese di Patti) i tre "paternesi" saranno fra i protagonisti assoluti della storia di Piazza Affari nel dopoguerra.LA GRANDE MEDIAZIONE DEGLI ANNI '80
1989 La quotazione di Premafin
Dopo aver incassato il no di Nerio Nesi, Ligresti trova in Enrico Cuccia un banchiere disposto ad aiutare Premafin. La strada percorsa è quella della quotazione in Borsa che consente a Cuccia di mantenere nell'orbita di Mediobanca i pacchetti azionari controllati da Ligresti. 1992-93 Tangentopoli
Dopo lo scandalo delle Aree d'oro degli Anni 80, Salvatore Ligresti torna alla ribalta delle cronache giudiziarie. Il sistema di potere e affari che ruota intorno al Partito Socialista di Bettino Craxi si sbriciola e Ligresti finisce a San Vittore con l'accusa di avere pagato tangenti per conquistare terreni pubblici e appalti con la Metropolitana Milanese. Ma non è finita. Presto Ligresti viene accusato anche di aver pagato delle tangenti per fare sì che i contratti assicurativi del colosso petrolifero Eni finissero alla sua Sai. Le due vicende lo costringono ad abbandonare le cariche esecutive nelle sue società.

Shopping24

Dai nostri archivi