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Questo articolo è stato pubblicato il 17 settembre 2013 alle ore 07:04.
L'ultima modifica è del 17 settembre 2013 alle ore 07:35.

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Un'altra strofa di quell'inno sciagurato, in genere, è: il resto non è di mia competenza. Non ci sono dunque responsabili (e tantomeno responsabilità) per le conseguenze di quegli atti, atti perfetti nelle forme e nelle carte bollate, ben più che imperfetti quanto a impatto sulla vita delle persone se si traducono in stipendi tagliati, lavori persi, famiglie senza più sostegni.

Una deriva caricaturale del diritto – che ha tollerato per decenni il mancato pagamento dello Stato ai suoi fornitori come atto legittimo – sta distruggendo il potenziale della manifattura italiana. Il caso di Enipower rientra in questo filone: l'azienda, sempre nel Tarantino, ha deciso di abbandonare gli investimenti dopo aver atteso 6 anni un'autorizzazione arrivata, ma mai applicata in sede locale, perchè impantanata in un interminabile gioco di veti. È il frutto di un mix tra pensiero unico ambientalista anti-industriale (e ostile allo sviluppo sostenibile, tendenza invece consolidata in Europa e leva fondamentale per la costruzione della nuova stagione di progresso) e cultura interdittiva del formalismo, pane e lievito della casta burocratica. Che, come ha ricordato l'ex ministro Corrado Clini sul Sole 24 Ore di domenica, rischia ora di bloccare anche i piani per le bonifiche di Marghera e Trieste, gli investimenti italo-giapponesi di Archimede Solar Energy in Sardegna, l'impianto Mossi&Ghisolfi per lo sviluppo delle filiera degli biocarburanti.
La "questione industriale italiana" resta dunque in tutta la sua portata. Spetta all'industria creare quel lavoro che non c'è e non si trova, ma è l'industria bersaglio di una cultura ostile, di azioni vessatorie, di interdizione pregiudiziale che ne rallentano il dispiegamento delle energie utili alla crescita di tutto il Paese. I "costi del non fare" ormai hanno totalizzato quasi 500 miliardi di investimenti andati in fumo. Un posto nell'industria ne crea tre nei servizi. Ma non è dato il contrario.

Anche lo sviluppo dematerializzato delle smart city (come va di moda dire in questa fase) avrà al centro produzione e reti, oltre che servizi ad alto valore aggiunto. E anche alle smart city serviranno comunque acciaio e cemento, oltre a computer, microchip, cavi, reti, sensori e segnali satellitari. Ma, in attesa di arrivare alle città del futuro – con le auto che guidano da sole, con le luci che si accendono a seconda di chi transita, con i telefoni che saranno password per entrare negli uffici e per pagare ovunque, con gli spazi pubblici che non saranno più solo spazi, ma sezioni di transito da un luogo a un altro, con enormi potenziali di comunicazione e di gestione di dati – l'Italia deve fare chiarezza su quale sia il suo futuro come potenza industriale. E fare di tutto per non perdere le eccellenze di oggi senza avere ancora raggiunto le eccellenze di domani.
L'industria pesante vive una fase di trasformazione verso una maggiore sostenibilità ambientale e verso una maggiore qualità e valore delle produzioni: è essa stessa atto di progresso industriale, fonte di crescita collettiva. Se il Paese sceglie con razionalità di cambiare vocazione a interi territori è importante che vi sia certezza sui tempi di bonifica, oltre che sui piani per creare la nuova fase di sviluppo e di espansione dell'occupazione.
La cultura degli interessi legittimi e dei diritti acquisiti – che mai ha fatto i conti con concetti quali rapidità, complessità e modernità – ha creato distorsioni sociali e civili per anni (basti pensare a certi contenziosi previdenziali). In gioco è il futuro industriale del nostro Paese, la capacità dell'Italia di essere (e sembrare) affidabile agli occhi degli investitori esteri. Non è in discussione la responsabilità per ciò che è stato, se ha creato una lunga scia di morte, ma non può essere nemmeno in gioco una partita tra l'interesse di un pugno di magistrati e il futuro di un intero Paese.

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