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Questo articolo è stato pubblicato il 02 marzo 2014 alle ore 20:11.
L'ultima modifica è del 03 marzo 2014 alle ore 12:36.

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Meno noto all'opinione pubblica, nel primo conflitto mondiale 1914-18, è invece il dramma collettivo dei soldati di lingua italiana nel Trentino austro-ungarico, mandati a combattere (e a morire) sul fronte orientale, prima ancora dell'entrata in guerra dell'Italia il 24 maggio 1915. Su una popolazione che superava di poco le 350mila unità, almeno 200mila persone dovettero abbandonare le loro case. «Un numero impressionante – citiamo il direttore della Fondazione museo storico del Trentino Giuseppe Ferrandi - che comprende i 55 mila maschi abili inviati dall'Impero austro-ungarico per lo più sul fronte orientale, ai quali vanno aggiunti i circa 700 volontari che confluirono nell'esercito italiano, i 75 mila profughi destinati alle regioni più interne dell'Impero, in Boemia, in Moravia, e i 30mila trasferiti in Italia, dal Piemonte alla Sicilia».

Nella Grande Guerra il fronte orientale è stato sempre considerato un teatro minore: non giovava infatti a Lenin perché l'aveva cominciata lo zar, né agli austriaci che furono sconfitti e persero il loro impero. Pochi hanno sentito menzionare ad esempio le due battaglie combattute tra l'esercito russo e quello austriaco intorno a Leopoli – oggi L'viv in Ucraina – nel settembre 1914 e nel giugno 1915 oppure la battaglia di Gorlice-Tarnow (due città non lontane da Cracovia), voluta dai generali austriaci in collaborazione con i tedeschi, per "liberare" la Galizia e inchiodare i russi lungo i Carpazi (nei confini attuali fra Polonia e Ucraina). In questa battaglia, cominciata il 1° maggio 1915, dopo tre giorni di terribili combattimenti e un numero enorme di morti e di feriti, gli austriaci riescono a sfondare il fronte. L'obiettivo politico e diplomatico – non conseguito - era quello di dissuadere l'Italia dall'entrare in guerra a fianco dell'Intesa. La maggior parte dei militari trentini e tirolesi di lingua italiana sono stati trattenuti sul fronte orientale anche dopo l'entrata in guerra dell'Italia, perché il comando supremo austriaco temeva che quei soldati avrebbero potuto dimostrarsi meno fedeli e combattivi, se spostati sul fronte alpino.

Yalta, in Crimea (allora Urss e oggi Ucraina), nel febbraio 1945 ospitò anche l'ultima grande conferenza durante la Seconda guerra mondiale fra Roosevelt, Churchill e Stalin. Ma per la nostra storia è anche la località dove nell'agosto 1964 morì a causa di una emorragia cerebrale Palmiro Togliatti, per più di trent'anni capo indiscusso del Partito comunista italiano. In occasione della cerimonia funebre venne annunciato il suo testamento politico ("memoriale di Yalta"), scritto durante il breve soggiorno estivo sulle rive del Mar Nero, dove Togliatti auspicava fra l'altro una via nazionale e pacifica al socialismo, nel quadro di una grande battaglia democratica.

In uno dei suoi libri sulla storia dell'Italia, Indro Montanelli racconta che a battere sulla macchina da scrivere alcune copie del memoriale fu Nilde Iotti, mentre un'impiegata del settore esteri del Pcus ne fece la traduzione in lingua russa. A distanza di pochi mesi dalla scomparsa di Togliatti, a Mosca il segretario generale del Pcus Nikita Kruscev, salito al potere in Unione Sovietica dopo la morte di Stalin nel 1953, viene destituito da tutte le sue cariche nel partito e nello Stato. Gli subentra una "direzione collegiale" con Leonid Breznev segretario generale del Pcus e Aleksej Kossyghin presidente del Consiglio dei ministri. Può darsi – ma non lo possiamo sapere – che durante il suo ultimo soggiorno nell'Urss anche Togliatti avesse già intuito che il potere di Kruscev stava vacillando.

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