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Questo articolo è stato pubblicato il 26 aprile 2014 alle ore 13:01.

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Non parla tanto Carlitos, non l'ha mai fatto. Quando El Tano ha chiesto di lui, di quel piccoletto che palleggiava con una pietra, si sono stupiti tutti. Ma come? Ce n'era di più belli, di più alti, di meno silenziosi. Da qualche parte deve pure iniziare il piano inclinato, il momentum. Quello di Carlitos è iniziato lì, con questo signore che cerca bambini prodigio per gli All Boys e decide che lui è quello giusto, perché prima o poi un raggio di sole o una botta di culo arriva pure all'ombra dei palazzoni. Pure se non hai le zapatillas e zio Segundo dice che agli All Boys non ti ci può mandare a meno che qualcuno non te le presti, le scarpe. Quando inizia il piano inclinato tutto rotola veloce. Arriva uno che sostiene che Tévez gioca come Maradona (che poi è un rischio letale, il gioca-come-maradonismo ne ha uccisi più della peste: Ortega, Saviola, Gallardo, D'Alessandro… Tévez no, Tévez si è salvato), Carlitos finisce al Boca e non si ferma più. Brasile, la vera mossa dell'uomo tutto d'un pezzo, alieno tra i nemici di sempre, Europa, Italia.

Carlos vince tanto, vince tutto, litiga molto, sbaglia qualcosa. Giovane per sempre, si ritrova ormai maturo e ancora imprigionato nel ruolo di giocatore del popolo, idolo anti-sistema, escluso dalla sua Nazionale nonostante stagioni eccezionali e quintali di gol. Poi però piovono gli asini, copiosi. Fateci caso quando poggiate i gomiti sul bancone del bar, che sia per un caffè o a fine giornata, vicino a voi troverete quasi sempre un Tévez-scettico.

Tévez non è un campione, al limite un grande giocatore.
Ecco, che quel limite affogasse nel caffè o in qualsiasi cosa stiano bevendo. I limiti sono comunque una misurazione, il confine di un talento. Quali confini può avere il talento di chi attraversa la vita con il passo di Carlos Tévez, l'Apache? Nessuno, il suo Gps non li rileva, li rimuove.
Boca, Corinthians, West Ham, Manchester United. Manchester City, Juventus. Qualche pettinatura sbagliata, qualche lite negli spogliatoi, alcuni allenatori ostili. Tanti gol, un oro olimpico con la nazionale argentina, trofeo isolato e punto d'orgoglio e di rammarico allo stesso tempo. Un agente dal nome impronunciabile, la maglia che fu di Del Piero, la foto di una caviglia martoriata nel derby perché ci son cose su cui non si transige, magari mal consigliati. Queste le uniche misurazioni possibili per un giocatore fuori dal tempo. Già, perché l'inconfessabile verità su Carlos Tévez è che lo si ama proprio per la sua presunta inadeguatezza, per la facilità con cui spinge a giudizi affrettati e per il rifiuto frontale dell'omologazione, nonostante le pettinature sbagliate di cui sopra. Carlos Tévez, per intenderci, pur essendo perfetto per il gioco del Barcellona sarebbe un pugno nell'occhio con la maglia blaugrana a nascondere le quasi rotonde forme. C'è un'enorme bellezza nel potersi dire anarchico nel calcio moderno, c'è un grande vantaggio nell'essere Carlos Tévez dopo tutti questi anni ed è quello di potersene allegramente fottere del dilemma campione-grande giocatore. Come Sivori troppo tempo fa, come Cassano, come Ronaldinho, come tutti quelli che se la sono vista brutta e poi così bella che di alcune critiche se la ridono, le lasciano indietro, le dribblano come avversari bolsi e tonti. Nel calcio di decimali, possesso palla e gioco del righello gli irregolari sono ossigeno puro, uno stop al volo è pura poesia e la potenza geometrica è medicina per i poveri di spirito.
Se hai palleggiato con una pietra e non ti ha steso una pentola di acqua bollente potranno forse preoccuparti due gol sbagliati con il Copenhagen o i metri percorsi nell'amichevole di Villar Perosa? Carlos Tévez non è una sports person, l'Apache è il calcio, quello bello.

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