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Questo articolo è stato pubblicato il 26 aprile 2014 alle ore 13:00.
L'ultima modifica è del 29 aprile 2014 alle ore 13:33.

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In termini geopolitici, l'Unione europea è l'unica potenza mondiale in fase di poderosa espansione. Nell'ultimo quarto di secolo si è trasformata da una zona di libero scambio costituita da dodici piccole nazioni, schiacciate tra due blocchi imperiali, a un colosso formato da ventotto Paesi e popolato da mezzo miliardo di persone. La maggior parte delle quali condivide un'unica moneta e un'unica frontiera. Questo colosso ha problemi di aggiustamento, i piedi d'argilla, tre o quattro teste al posto dell'unico numero di telefono che chiedeva Henry Kissinger? Certo che sì. Il percorso d'integrazione è squilibrato, l'euro è una camicia di forza, le opinioni pubbliche sono impaurite e in parte scoraggiate? Ebbene sì. E non è neppure da escludere che ci attendano scossoni ancor più violenti di quelli che abbiamo subito nel corso degli ultimi anni. Ma se stacca gli occhi da Twitter prima o poi qualcuno finirà col ricordare che – come c'insegna Michael Bordo – gli Stati Uniti ci hanno messo più di un secolo a instaurare il dollaro come moneta unica. E che, da quelle parti, per mettersi d'accordo sull'assetto istituzionale c'è voluta una guerra civile, oltre a decenni di trattative non sempre edificanti. Alla luce di quella esperienza, varrebbe forse la pena di ridimensionare un po' gli psicodrammi sui referendum anti-europei e su Marine Le Pen al 20 per cento. L'Ue è il primo tentativo nella storia di creare un insieme sopranazionale in tempo di pace, senza armi e senza minacce, sulla base della libera adesione dei popoli. A chi scrive non viene in mente alcun progetto politico più esaltante di questo: nulla di più vasto, nulla di più bello nella storia recente del genere umano. E allora perché sul movimento dei diritti civili, sull'indipendenza dell'India, sulla fine dell'apartheid ci fanno i film, e sull'epopea europea neanche uno straccio di fiction televisiva? Perché lì c'erano Martin Luther King, Gandhi e Nelson Mandela, si dirà. Oppure perché lì la storia è più leggibile, con le sue battaglie e le sue violenze, mentre qui bisognerebbe riprendere una sfilza interminabile di conferenze noiosissime e di burocrati al lavoro.

Il punto è proprio questo: la noia europea non è il frutto del caso, bensì di un preciso – e illuminato – disegno politico. All'indomani della Seconda guerra mondiale, i leader capiscono che l'unione è al tempo stesso indispensabile e impossibile. Indispensabile per impedire che la storia degli scontri fratricidi si ripeta all'infinito. E impossibile perché le popolazioni, nonostante tutto, non la vogliono. Nel 1948, Winston Churchill ha provato ad aprire il cantiere degli Stati Uniti d'Europa all'Aia, ma il consenso su un progetto politico visionario non si è materializzato. Del resto, anche negli anni successivi, gli aderenti al Movimento federalista europeo non saranno mai più di 250mila. Ecco perché gli europeisti decidono di imboccare la strada degli accordi tecnici. Prima sul carbone e sull'acciaio, e poi su una serie sempre più vasta di materie, fino a creare una rete inestricabile di relazioni e di interessi in comune, che trasformano l'Unione europea in un fatto compiuto, un moloc tecnocratico dotato di una propria logica inesorabile. In politica, si sa, la noia è il delitto perfetto. Se riesci a rendere un argomento così noioso che tutti se ne disinteressano, poi puoi fare quello che ti pare. E così è stato per l'Europa dei burocrati, almeno fino a Maastricht e in parte fino ai nostri giorni. Bisogna render loro tanto di cappello: sono riusciti a mascherare una delle epopee politiche più esaltanti della storia dietro una serie infinita di direttive sul colore dei salvagente e sul peso delle mozzarelle. Ancor oggi, è il loro metodo a garantire i passi avanti più significativi (vedasi il recentissimo provvedimento sulla fine del roaming). L'euronoia, però, si fonda su un presupposto decisivo: una sorta di silenzio-assenso dei popoli che, se non attivamente protagonisti della costruzione europea, siano per lo meno non apertamente ostili nei suoi confronti. Per molti decenni, questa condizione si è verificata. Il ricordo della Seconda guerra mondiale e la paura di un nuovo scontro globale bastavano a scoraggiare la maggior parte delle pulsioni antieuropee. Oggi la situazione è cambiata. Le generazioni che hanno conosciuto la guerra non ci sono più. E al loro posto ci sono nuovi elettori che sono sì cresciuti in un continente pacifico e sempre più unito, ma ai quali l'euronoia non ha fornito una cultura comune. Qualche semestre Erasmus, un paio di eurovisioni, i giochi senza frontiere e poco altro. Nessun mito, nessun racconto, nessun sogno: solo la distesa infinita dei codicilli e dei protocolli. Ecco perché dobbiamo rassegnarci alla triste verità. La noia ha fatto molto per l'Europa, ma oggi non basta più.

Le direttive sul roaming ci servono ancora, ma abbiamo ancor più bisogno di idee e di storie. Non è un lavoro tanto per i politici, quanto per gli scrittori, i registi, i creatori di videogiochi. Altro che Route 66 e Khyber Pass, noi possiamo scendere sotto casa, metterci al volante e guidare fino a Tallin senza mai mostrare il passaporto. L'euronoia ce l'ha presentato come un fatto banale, mentre è un evento inaudito, favoloso. Come diceva qualcuno, però, affinché un'epoca sia rivoluzionaria è necessario che qualcuno se ne accorga.

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