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Cina vs Asia / Quei mari orientali agitati che cominciano a spaventare il mondo

I contenziosi territoriali che rischiano di provocare conflitti armati e iniziano a danneggiare l'economia globale

2. Cina vs Vietnam /Il contenzioso più caldo

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Morti, feriti e devastazioni di fabbriche. Un rischio per gli investimenti stranieri e per la supply chain economica internazionale.

Fino all'inizio di questo mese, sembrava che i rapporti tra Cina e Vietnam dovessero migliorare: solo qualche mese fa i leader dei due Paesi si erano incontrati e avevano concordato di cercare di risolvere con calma le dispute territoriali, avviando anche discussioni sulla possibilità di esplorazioni congiunte nel mar Cinese Meridionale. Sono dispute risalenti, che riguardano in particolare due gruppi di isole (Paracel e Spratly) presso le quali sono avvenuti scontri armati nel 1974 e nel 1988 (vinti dalla Cina che per lo più ne ha preso l'effettivo controllo).

Tutto è cambiato a inizio maggio con il dispiegamento di una grande piattaforma di esplorazione petrolifera da parte della China National Offshore Oil Corporation in un'area contestata a solo 120 miglia nautiche dalla costa del Vietnam centrale, non molto distante dalle isole Paracel che la Cina aveva strappato al Vietnam nel 1974 sulla scia del disimpegno americano. La Cnooc ha annunciato che l'attività continuerà fino al 14 agosto.

PROTESTE INDISCRIMINATE Le proteste _ un fatto raro in un Paese che resta autoritario _ sono esplose inizialmente senza particolari violenze, nel segno del patriottismo, ma negli ultimi giorni sono degenerate in numerosi atti di violenza e devastazione, che hanno colpito soprattutto fabbriche e strutture cinesi e taiwanesi in Vietnam, ma si sono estesi in modo indiscriminato anche a impianti controllati da altri investitori stranieri (giapponesi, malesi, sudcoreani, singaporeani compresi). Almeno 21 i morti e un centinaio i feriti. A migliaia cinesi e tailandesi stanno lasciando il Paese.
Taiwan viene presa di mira dai dimostranti in quando identificata sostanzialmente con la Cina (del resto i vietnamiti non conoscono gli ideogrammi cinesi), anche se il governo di Taipei da vari anni non ha portato avanti in modo pressante le sue parallele rivendicazioni nel Mar Cinese meridionale. Almeno 400 impianti produttivi sono stati danneggiati.

RISVOLTI INTERNAZIONALI - Non è chiaro se questa estensione degli attacchi a fabbriche non cinesi sia dovuta a equivoci o se la rabbia contro Pechino abbia finito per innescare diffusi risentimenti antistranieri più generali. Gli investimenti dall'estero hanno spronato l'economia negli ultimi anni, ma hanno anche allargatole disparità sociali nel Paese "comunista" e contribuito al rincaro dei prezzi interni. Nel 2008 c'erano state molte proteste e scioperi nelle fabbriche a controllo straniero, in tempi di accelerata inflazione, e di tanto in tanto dimostrazioni di massa anti-cinesi si verificano (l'afflusso di lavoratori dalla Cina è particolarmente detestato). Ma una esplosione tanto generalizzata di violenze solleva in effetti la questione dell'atteggiamento governativo: Hanoi certamente vuole esercitare pressioni su Pechino ma finisce per incontrare difficoltà nell'evitare che le proteste vadano fuori controllo (oltre 700 persone sono state comunque arrestate, in 22 delle 66 province del Paese).

A questo punto il rischio non sta solo negli atti di violenza: il pericolo è che molti investitori stranieri smettano di considerare il Vietnam come una destinazione privilegiata – grazie ai costi molto bassi e alla qualità del personale locale _ per i loro investimenti manifatturieri. Eventuali ritorsioni commerciali reciproche tra Cina e Vienam potrebbero inoltre intaccare la supply chain internazionale: alcune aziende giapponesi, per esempio, temono interruzioni e ritardi nell'arrivo presso le loro fabbriche in Vietnam di componentistica cinese (Hanoi potrebbe rafforzare e rendere più lenti i controlli doganali, per esempio) .

L'anno scorso il maggiore investitore in Vietnam è stata la Corea del Sud in termini di ammontare promesso (3,75 miliardi di dollari), ma la Cina aveva annunciato investimenti diretti per 2,28 miliardi di dollari in enorme rialzo rispetto ai 302 milioni del'anno procedente. Formosa Plastics, la principale azienda taiwanese in Vietnam, ha già annunciato il blocco di ulteriori investimenti del Paese dopo la devastazione di almeno due fabbriche (in totale dal 1988 Taiwan ha investito per 27,3 miliardi di dollari). Il premier Nguyen Tan Dung è intervenuto per invitare alla calma, con il messaggio secondo cui il patriottismo va espresso in accordo con la legge e senza causare disordini sociali. E ha dato istruzioni perché sia evidenziato a ambasciate e investitori stranieri che Hanoi continua la sua politica "coerente e corretta" di facilitazione degli investimenti stranieri. Hanoi, evidentemente, comincia a temere per la sua stessa economia.

OPZIONI LIMITATE PER HANOI
Pechino ha elevato proteste diplomatiche e accusato il governo di Hanoi di connivenza, mentre Taipei ha chiesto che i danni a decine di impianti taiwanesi siano risarciti.
L'esplosione di furore in Vietnam fa peraltro da maschera a una limitatezza di opzioni a disposizione del Paese nel contrastare l'assertività cinese. Hanoi ha una Marina militare modesta e non ha alleanze militari con altri Paesi, mentre il Giappone è protetto dagli Usa e le Filippine hanno appena stipulato un patto con Washington che consente il dispiegamento di forze armate Usa nel suo territorio. Mentre le Filippine, relativamente parlando, non hanno rapporti economici essenziali con Pechino, il Vietnam dipende in modo significativo dai commerci con la Cina, da cui arrivano circa un quarto delle sue importazioni. Il commercio bilaterale vale circa 50 miliardi di dollari. Se tra Cina e Giappone l'interdipendenza economica è reciproca, Pechino potrebbe tagliare i rapporti con Hanoi senza che la sua economia ne risenta in modo sostanziale.

Ieri il vicepresidente Usa Joe Biden ha espresso le preoccupazioni americane per l'assertività unilaterale cinese al capo di stato maggiore Fang Fengui, il visita a Washington, il quale ha replicato che è proprio la strategia americana del "pivot" verso l'Asia a destabilizzare la regione e induce alcuni Paesi a provocare problemi.

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