Venerdì sono uscito dall'aeroporto di Torino poco dopo le tredici e mi sono messo in macchina sull'A5, direzione Aosta con destinazione Ivrea, stabilimenti Olivetti, Officina H. Ho preso l'impegno con Andrea Carandini che avrei condotto lì una tavola rotonda su quale rinascita per l'Italia con il Canavese come laboratorio di un'altra Italia dove i territori, la fabbrica, il Castello di Masino, la cultura e il bello si intrecciano in un'idea di comunità che appartiene al "suo" popolo. Settimo Torinese, San Giorgio Canavese, Scarmagno, guardo alla mia destra e vedo una infinita piana di verde con piccoli villaggi, fatti di casette e qualche campanile, un opificio aperto e due chiusi, sullo sfondo l'incantesimo delle Alpi. Poco prima dell'uscita di Scarmagno, il colpo più duro: il vecchio stabilimento della Olivetti giace senza vita, resta il segno della grande architettura ma non c'è più la grande fabbrica, le pareti a tratti annerite, un senso (disarmante) di vuoto, è intatta la bellezza fisica del paesaggio intorno ma non scalda più, quelle mura senza vita parlano da sole. Si tratta certo di un paragone ardito, ma dentro di me scatta la stessa sensazione che provo tutte le volte che mi metto in macchina dall'aeroporto di Reggio Calabria verso il centro e conto i palazzi senza tetto, pareti a metà, cantieri aperti e mai chiusi, un'idea mortificata di un territorio e di un popolo che a volte mi fa pensare a Beirut e alle sue case sventrate.
Una decina di minuti e sono all'officina H, stabilimenti Olivetti, nel cuore di Ivrea, tutto è rimesso a posto. Mi colpisce una frase di Carandini: «Siamo qui per uscire in fretta dallo spaesamento, ricreiamo la comunità, facciamo rivivere l'utopia becattiniana, mettiamo insieme pezzi di aziende che innovano e i sapori dell'artigianato, la bellezza del castello, l'incanto di una terra piena di verde e di segreti». Raggiungo Laura Olivetti, figlia di Adriano, seduta in prima fila, facciamo due chiacchiere: «Qui si avverte il segno di un'impresa molto particolare, è come se la fabbrica si fosse smaterializzata per cui non c'è più nei luoghi di produzione della grande impresa, ma c'è nella testa di chi vuol cambiare puntando sull'innovazione e nei tanti piccoli e grandi opifici hi tech». Poi si lascia andare un attimo, e butta lì: «Ero bambina, ricordo la domenica quando mio padre mi metteva in macchina, e andavamo di paese in paese, respiravo l'aria della comunità. Questo modello fatto di innovazione e manualità, di saper fare, lo abbiamo esportato in Basilicata e in Campania. Oggi rivive qui dove meno te lo aspetti, nel Castello e nel Parco di Masino o a tavola con i biscottini di Novara, ma bisogna uscire dallo spaesamento interessato e mettere insieme tutto, bisogna avere voglia di farlo». A ben pensarci, questo è il miracolo vero del Canavese dove convivono elettronica e agricoltura biologica, finimenti per cavalli da Strambino ad Harrods e sedie impagliate da museo, il senso profondo (e antico) delle cose semplici, la sfida di una cultura che vuole vivere di capitali privati fiscalmente incentivati e di buona amministrazione, ma deve riuscire a tornare a essere quello che è stata, la stessa comunità con lo stesso spirito.
roberto.napoletano@ilsole24ore.com
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