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Questo articolo è stato pubblicato il 29 maggio 2014 alle ore 06:37.

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ROMA.
Claudio Scajola non solo pretese tagli del 30% delle scorte in tutta Italia sei mesi prima dell'uccisione di Marco Biagi. Ma nella circolare inviata a prefetti e questori sottolineò con forza: «Personalmente valuterò sulla base dei risultati conseguiti» l'azione «di recupero delle risorse» derivante dalla stretta imposta. Un messaggio che non ammetteva né dubbi né incertezze. Firmata il 15 settembre 2001, l'indicazione del ministro dell'Interno oggi prende una nuova luce davanti alla riapertura del fascicolo in procura a Bologna sulla mancata attribuzione della scorta a Biagi con l'ipotesi di omicidio per omissione. L'azione giudiziaria, infatti, può mettere a fuoco l'ipotesi che la mancanza della tutela al giuslavorista riguardi la responsabilità politica del ministro dell'Interno. E non tanto le decisioni assunte da prefetti e questori a Roma, Milano, Modena e, soprattutto Bologna, oltre al dipartimento di Ps: procedure scandagliate dagli inquirenti bolognesi nella precedente indagine finita con l'archiviazione per tutti.
In quell'inchiesta Scajola – in carcere dall'8 maggio scorso con l'accusa di aver favorito la latitanza di Amedeo Matacena, ex deputato di Forza Italia condannato per concorso esterno in associazione mafiosa – non fu neanche indagato. Ora però anche in base alle rivelazioni dell'ex segretario di Scajola, Luciano Zocchi - oggi sarà risentito dal pm Antonello Gustapane - il lavoro degli inquirenti assume un'altra piega. La circolare taglia-scorte, peraltro, fa impressione. Certo, parte da un presupposto ancora attuale, oggi anzi più di allora: la «assoluta necessità di rivedere, in una logica di razionalizzazione e di ottimizzazione delle risorse, i criteri di distribuzione e di impiego delle forze di polizia». Un testo perfetto, insomma, per un'azione di spending review. La necessità di recuperare uomini da destinare alla vigilanza degli obiettivi sensibili – gli attentati dell'11 settembre avevano scatenato il panico – non si discuteva. Ma nell'allegato n. 1 della circolare Scajola ordina fin nei minimi particolari alle autorità locali di pubblica sicurezza che «dovranno acquisire (e trasmettere) dettagliati elementi informativi» per motivare le protezioni assegnate. Sul quotidiano online ww.firenzepost.it l'ex prefetto di Firenze, Paolo Padoin, nota che i suoi colleghi erano così «avvertiti che il ministro avrebbe personalmente valutato i risultati del loro operato. Per chi conosce bene il gergo burocratico, si faceva capire che chi non avesse ridotto a sufficienza le scorte sarebbe stato valutato negativamente. Detto in altri termini, destinato ad altro incarico». Davanti alla pretesa di Scajola della più ampia e circostanziata documentazione per giustificare ogni scorta, l'informativa del Sisde - ce ne furono tre - sui rischi di attentati per il mondo del lavoro, rivelatasi premonitrice, appariva aria fritta. Le segnalazioni disperate al ministro per salvare Biagi di Zocchi, di Stefano Parisi, di Maurizio Sacconi e di Franco Frattini restarono inascoltate. Nonostante la circolare, però, molti continuarono ad avere la scorta, come il sottosegretario e critico d'arte Vittorio Sgarbi.
Ieri i magistrati dell'antimafia, Giuseppe Curcio della Direzione nazionale e Francesco Lombardo della Dda di Reggio Calabria sono stati a Villa Ninina, la casa ligure dell'ex ministro dell'Interno: una verifica sull'archivio scoperto in uno scantinato e fatto di carte, documenti e appunti. Portate via poche cose, alcune definite «interessanti».
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