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Questo articolo è stato pubblicato il 25 giugno 2014 alle ore 08:41.
L'ultima modifica è del 25 giugno 2014 alle ore 08:55.

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Nei primi due anni circa, imprese contigue alla mafia o possedute in prima persona da soggetti condannati per associazione mafiosa sono state passate al setaccio, e sono state veramente tante. «Si è trattato quasi di un assalto alla diligenza – scrive il pm Capasso – per arrivare ad accaparrarsi gli appalti più lucrosi da parte della Camorra, della ‘ndrangheta e di Cosa nostra, particolarmente quella gelese».
Lo scambio di informazioni tra la Prefettura e la Dna ha permesso al prefetto dell'Aquila di decretare l'interdittiva antimafia per numerose società, così come da parte sua la Direzione nazionale ha, nell'ambito dei suoi poteri di impulso, sollecitato le Procure territorialmente competenti a proporre misure di prevenzione patrimoniale.

«Purtroppo si è andata consolidando una giurisprudenza, sia per quanto riguarda la giustizia amministrativa per le interdittive disposte dal Prefetto, sia per quanto riguarda i Tribunali ordinari per le misure di prevenzione – scrive sconsolata Capasso – per cui i collegamenti accertati per il passato con organizzazioni criminali non sono sufficienti, richiedendosi sempre l'attualità dei collegamenti con soggetti mafiosi.
Questo rende più difficile il contrasto alle infiltrazioni mafiose negli appalti, anche perché se il collegamento è attuale le indagini sono ancora coperte da segreto e quindi gli atti non sono ostensibili, e dunque un più stretto rapporto tra le Autorità amministrative di controllo e la magistratura inquirente pare l'unica strada percorribile per arrivare a risultati più concreti».

Nonostante tutto, alcune grosse imprese sono state eliminate dal mercato con la conferma della misura interdittiva anche al Consiglio di Stato.
Quasi assenti le imprese con sede nelle regioni tradizionalmente occupate dalla criminalità mafiosa. Quelle individuate per le interdittive o proposte di misure di prevenzione patrimoniale hanno sedi nel nord Italia, principalmente in Lombardia e in Emilia Romagna. I rispettivi soci, effettivi ed occulti, e amministratori sono comunque calabresi e campani, impiantati da anni nelle regioni del settentrione, a dimostrazione del radicamento ormai stabile e diffuso della mafia in tutta Italia, con l'ovvia preferenza per le regioni più ricche come quelle citate. Tale attività, all'inizio frenetica e con risultati apprezzabili – anche se molte società hanno potuto superare le maglie della rete costruita intorno a loro grazie al lavoro di molti – è peraltro andata scemando di mese in mese.

Oltre alle quattro società per cui è stata avviata attività d'impulso per misure di prevenzione patrimoniale, per altre due società sono state prese analoghe iniziative, società che presentano indubbie infiltrazioni mafiose e anch'esse con sede legale in Lombardia. Per un'altra impresa, completamente in mano alla ‘ndrangheta, purtroppo, scriveva Capasso a fine 2013, non si può ancora intervenire perché a carico dei soci vi sono indagini in corso di non breve durata, ma che comunque, compatibilmente con il segreto delle stesse, è stata segnalata alla Prefettura dell'Aquila perché la tenga particolarmente sotto controllo.

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