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Questo articolo è stato pubblicato il 01 luglio 2014 alle ore 07:13.
L'ultima modifica è del 01 luglio 2014 alle ore 16:03.

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Da oggi i risparmiatori italiani sono alle prese con la nuova stangata sulle rendite finanziarie. La tassazione passa dal 20% al 26%, con l'eccezione dei titoli di Stato dei Paesi "white list" (che restano al 12,5%). La nuova stretta si aggiunge a quella varata in piena emergenza nell'estate del 2011 dal Governo Berlusconi: dal 2012 la tassazione sul capital gain sarebbe passata dal 12,5% al 20% (diminuendo però, va ricordato, l'imposizione sui conti correnti). Morale: nel giro di appena due anni e mezzo le tasse sulle plusvalenze finanziarie sono più che raddoppiate.

Ma non basta: con il decreto "salva Italia" varato nel dicembre 2011 dal Governo Monti è arrivata l'imposta di bollo, la mini-patrimoniale su conti correnti e strumenti finanziari. Anche questa destinata a diventare sempre più pesante: era l'1 per mille nel 2012, è passata all'1,5 per mille nel 2013 e dal 1° gennaio 2014 è volata al 2 per mille. Altro raddoppio, stavolta nel giro di appena due anni.

Al di là del giro di vite sul risparmio degli italiani (e sull'industria del risparmio gestito tricolore, con i suoi posti di lavoro), va sottolineato che è il sistema italiano nel suo complesso a rivelarsi assai singolare.

Un primo paradosso è questo: per il piccolo risparmiatore italiano è più conveniente investire sulle obbligazioni di Stati come il Bangladesh o il Kazakistan (tassate al 12,5%) rispetto alle obbligazioni corporate di colossi italiani come Eni, Intesa o Unicredit (tassate ora al 26%). Ma Bangladesh e Kazakistan dal punto di vista fiscale convengono anche rispetto alle Pmi italiane più dinamiche, le nostre "corazzate tascabili" assetate di finanziamenti sempre più difficili da ottenere. Con un mercato dei capitali asfittico, il sistema di tassazione colpisce con una mano sempre più pesante le emissioni obbligazionarie societarie, aumentando la dipendenza dalle banche delle aziende italiane. Una specie di nuova tassazione indiretta alle imprese, già abbastanza torchiate dal Fisco.

C'è poi una seconda distorsione: considerando sia l'imposta sui redditi finanziari che quella di bollo (la "patrimonialina"), i risparmiatori vengono penalizzati proprio quando i rendimenti ottenuti sono più bassi. Lo spiega bene Giuseppe Marsi, amministratore delegato di Schroders Italy Sim: anche un prodotto finanziario tassato al 12,5% se rende il 2% paga il 22,5%, mentre se rende il 10% paga il 13,7%.

Le conseguenze? «La correlazione negativa tra tassazione e reddito finanziario potrebbe portare ad aumentare il rischio degli investimenti o a favorire il proliferare di prodotti derivati a leva difficilmente liquidabili e molto rischiosi», spiega Marsi. Oppure può spingere ad abbandonare del tutto gli investimenti.

Come se ne esce? Marsi avanza due proposte: si potrebbe innalzare l'imposta sulle rendite finanziarie abolendo contemporaneamente l'imposta di bollo. Oppure differenziare le aliquote di imposta, rendendole inversamente proporzionali alla durata dell'investimento. Con buona pace dei titoli di Stato kazaki.

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