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Questo articolo è stato pubblicato il 08 luglio 2014 alle ore 07:31.
L'ultima modifica è del 08 luglio 2014 alle ore 07:44.

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«Dovremmo imparare a fare guerre di posizione non solo politiche ma nelle strutture decisionali della Commissione europea» avverte un'altra voce inevitabilmente critica dell'atteggiamento fin qui troppo provinciale tenuto a Roma nei confronti di uno dei centri di potere destinati a diventare sempre più intrusivi nelle realtà nazionali dei paesi dell'Unione. La Germania lo ha capito tanto bene che, dopo la riunificazione, ha cominciato a crescere gradualmente ma inesorabilmente dentro le istituzioni Ue fino a diventarne il deus ex-machina, volutamente sommerso.
L'Italia no. Anche con Matteo Renzi, finora si è limitata a denunciare l'oppressiva Europa dei tecnocrati, come se fosse altra, un'entità metafisica e non la diretta emanazione dei governi, la loro longa manus a Bruxelles. Naturalmente la longa manus di quelli che ci vogliono essere e vogliono vincere facendo sistema-Paese anche negli ingloriosi, oscuri e complessi iter decisionali Ue, quelli che poi in concreto sono gli unici a contare davvero. Quelli su cui si misurano capacità, visione e determinazione di chi vuole davvero contribuire a fare la sua parte per costruire una nuova Europa. Nei fatti. In breve nelle fatiche della routine quotidiana che però raramente finiscono sotto le luci della ribalta.

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