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Questo articolo è stato pubblicato il 16 luglio 2014 alle ore 06:38.
L'ultima modifica è del 18 luglio 2014 alle ore 14:06.

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Può un «sillogismo probatorio» portare alla condanna di un imputato senza che vi siano le prove effettive del reato? No, non può secondo Franco Coppi e Filippo Dinacci, difensori di Silvio Berlusconi nel processo di appello sul caso Ruby. Il ragionamento secondo il quale «Ruby si prostituisce, Ruby va ad Arcore, dunque Ruby si prostituisce ad Arcore», non è giuridicamente fondato. Anzi.

Secondo gli avvocati dell'ex premier, la sentenza che ha condannato Berlusconi a sette anni di reclusione e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici per concussione e prostituzione minorile, è un «mostro giuridico». E le prove che Berlusconi abbia concusso i funzionari della questura di Milano per coprire un reato grave, e cioè i rapporti sessuali con la minorenne Karima El Marhoug, non esistono. Berlusconi va dunque assolto per «insussistenza del fatto». Per oltre otto ore, ieri, Coppi e Dinacci hanno cercato di smontare punto per punto il teorema dell'accusa davanti ai giudici della seconda Corte d'Appello di Milano argomentando perché - secondo la loro analisi - la sentenza di primo grado è basata su «un convincimento di presunte prove» ma non su elementi dimostrati dai fatti e dalle testimonianze.

«Non c'è nessuna prova» è il leit motiv che Coppi ha ripetuto più volte. Non c'è nessuna prova - ha detto - che Berlusconi abbia impartito un ordine al capo di gabinetto della questura, Pietro Ostuni, la notte del 27 maggio 2010 per far rilasciare Ruby. La telefonata a Ostuni è il punto più delicato del processo, perché quella conversazione è costata a Berlusconi sei dei sette anni complessivi. Per questo Coppi ha ricordato che secondo le Sezioni unite della Cassazione per parlare di costrizione occorre che «il concusso sia privo di alternative, venga messo con le spalle al muro». Ma non è questo ciò che sarebbe avvenuto quella notte. Per la difesa di Berlusconi fu invece un «timore reverenziale» nei confronti dell'allora presidente del Consiglio a spingere il funzionario ad affidare Ruby a Nicole Minetti. Ecco perché, ha incalzato Coppi, «reclamiamo una sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto».

Ma non c'è solo la questione della telefonata da smontare. Gli altri punti che Coppi e Dinacci hanno cercato di demolire sono stati i presunti rapporti sessuali e la consapevolezza della minore età di Ruby. Anche in questo caso, per i due difensori, mancano le prove che Ruby si sia prostituita ad Arcore. L'ex premier, ha aggiunto ancora Coppi, la sera della telefonata non sapeva che Ruby fosse minorenne ed era davvero convinto della parentela con Mubarak. Ora la parola tocca ai giudici che si ritireranno venerdì in camera di consiglio per la sentenza.

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