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Questo articolo è stato pubblicato il 19 luglio 2014 alle ore 08:05.
L'ultima modifica è del 19 luglio 2014 alle ore 10:03.

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Quando un aereo di linea civile viene abbattuto nei cieli d'Europa su una zona di guerra al confine tra Russia e Ucraina, mentre le forze militari israeliane danno vita all'ennesima invasione di Gaza, a settimane dalla proclamazione di un nuovo "califfato" tra Siria e Iraq, c'è solo un monito che possiamo raccogliere: l'ordine internazionale sta collassando.

Il tutto appare pericolosamente fuori controllo. La dispersione di potenza nel sistema sembra aver raggiunto un livello ormai insostenibile, in cui ogni singolo incidente rischia di innescare pericolose escalation alle quali nessuno è seriamente in grado di opporsi. I due assetti che hanno garantito la lunga pace del secondo dopoguerra (almeno per quanto riguarda la gran parte dell'Emisfero Nord) - ovvero il bipolarismo sovietico-americano (tra il 1946 e il 1989) e l'egemonia americana (estesa all'intero sistema dopo il 1989) - sono definitivamente tramontati e non sembrano destinati a risorgere nemmeno in forme surrettizie o emendate. La crisi ucraina, tragicamente sfuggita di mano ai suoi protagonisti diretti (russi, ucraini e insorti filo-russi) o indiretti (l'Occidente), sta lì a testimoniare fin troppo vividamente che nessun equilibrio di tipo competitivo, come era quello tipico della Guerra Fredda, è in grado di essere restaurato e men che meno di assicurare una gestione ordinata delle crisi. In fondo, l'ordine che il bipolarismo sovietico-americano garantiva ai tempi della Guerra Fredda era simile a quello che si produce su un campo da rugby durante una "mischia ordinata", quando i due "pacchetti" che si scontrano per contendersi la palla introdotta dal mediano devono comunque cooperare per la stabilità della mischia, pena il suo collasso.

Ebbene, nella contesa per l'Ucraina, russi e americani (oltre agli europei) si sono mossi come se non ricadesse sotto la loro precisa responsabilità evitare che l'effetto delle spinte contrapposte producesse il crollo del sistema d'ordine europeo. Poco conta che l'escalation tra gli attori coinvolti sia oggettivamente (e fortunatamente) vincolata dai reciproci arsenali nucleari. Quello che più inquieta è che nella crisi ucraina si sia fatto strame di regole e prassi che si riteneva fossero non solo consolidate, ma anche interesse comune dei contendenti preservare. Paradossalmente è proprio il venir meno del conflitto ideologico a rendere la competizione meno limitata. Dal punto di vista sostanziale, infatti, l'arena è una sola: quella del mercato globale e delle sue risorse. Oggi la Russia è un attore integrato nel sistema capitalista (per quanto in maniera imperfetta, non diversamente dalla Cina), non è più il polo ispiratore o il leader di un'altra idea di ordine, di economia, di politica.

L'America ha rappresentato il pilastro e il guardiano del mercato globale per tutti questi anni: prima, durante la Guerra Fredda, limitatamente all'Occidente, poi, dal 1989, a livello planetario. Ma detto con molta semplicità, quest'ultimo compito si è rivelato insostenibile per i soli Stati Uniti, tantopiù nella riluttanza e nelle difficoltà dell'Europa ad assumersi maggiori responsabilità. Se la crisi finanziaria inaugurata nel 2007 ha scosso le radici della potenza americana, è il caos mediorientale che ha manifestato plasticamente la sua repentina perdita di influenza. È dal 1978, con gli accordi di Camp David, che il Medio Oriente si è trasformato in una riserva americana, operazione "perfezionata" con la caduta di Saddam nel 2003. Da allora, in poco più di dieci anni, la posizione dominante degli Stati Uniti si è progressivamente erosa, insuccesso dopo insuccesso, nell'incapacità di farsi temere dagli avversari e rispettare dagli alleati: fossero quelli i siriani e gli iraniani e questi i sauditi e gli israeliani. E il ritorno in gioco di Mosca nella guerra civile siriana ne rappresenta una sorta di nemesi.

Nel 1984 Robert Keohane pubblicava il libro più influente della teoria delle Relazioni Internazionali, After Hegemony, dedicato a spiegare come mai, all'interno del mondo occidentale, il declino relativo degli Stati Uniti legato alla guerra del Vietnam, alla denuncia degli accordi di Bretton Woods e alla fine di un ordine finanziario internazionale imperniato sull'egemonia americana non fosse stato seguito dal caos; ma avesse invece preso forma un'inedita cooperazione volontaria tra tutti gli attori coinvolti, tesa a riproporre "gli effetti dell'ordine egemonico in assenza di un egemone". Ebbene, se i tragici eventi di questi mesi ci dicono qualcosa è che dal nuovo declino dell'egemonia americana sta nascendo di tutto, fuorché un nuovo ordine: almeno spontaneamente. Ed è questo, più che il declino americano in sé, a doverci seriamente preoccupare.

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