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Questo articolo è stato pubblicato il 23 luglio 2014 alle ore 10:04.
L'ultima modifica è del 27 luglio 2014 alle ore 16:14.

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(Afp)(Afp)

Hanno vinto i candidati più moderati. Probabilmente. Perché nella tormentata Libia, lacerata dagli scontri fra milizie rivali e da un clima di ingovernabilità, anche il più semplice risultato elettorale si presta a diverse interpretazioni. La buona notizia, comunque, c'è. Dopo un mese dal voto, l'Alta commissione elettorale libica ha annunciato ieri i risultati definitivi delle elezioni parlamentari tenutesi lo scorso 25 giugno. Dire quale corrente abbia vinto con precisione è difficile. Anche perché i partiti politici, che nell'ultimo anno hanno dato pessima prova di loro, sono stati messi al bando. Sui 200 seggi del Parlamento, 168 seggi andranno a candidati indipendenti, o meglio individuali (che potrebbero essere indirettamente legati ai partiti) , mentre i restanti 32 seggi saranno comunque assegnati alle donne come quota rosa.

L'indicazione dei vincenti è arrivata dunque da diversi candidati che siederanno nella nuova Camera dei rappresentanti: a loro giudizio la corrente "laica" (un termine impreciso che va comunque contestualizzato in un Paese molto religioso come la Libia) avrebbe largamente prevalso sui candidati islamisti. Il condizionale, però, è d'obbligo: perché occorrerà valutare esattamente chi sono, uno per uno, i nuovi "onorevoli" del nuovo Parlamento, battezzato "Camera dei rappresentanti" per marcare la differenza con quello precedente, il Congresso generale.

Nessuno tuttavia si crea molte illusioni. Anche nelle elezioni parlamentari del luglio 2012 – le prime trasparenti dopo oltre mezzo secolo - la coalizione "laica" guidata da Mahmoud Jibril, l'ex premier del Consiglio nazionale di transizione, aveva travolto i partiti islamici. Le lotte clandestine tra i Partiti avevano poi portato a un clima di ingovernabilità. Il partito dei Fratelli musulmani era riuscito a conquistare gradualmente la maggioranza in Parlamento, attirando nella sua sfera i candidati indipendenti. Si spera ora che questo voto – con molti candidati provenienti da diverse municipalità - possa rispecchiare meglio le realtà locali. In un Paese a forte presenza tribale come la Libia, si tratta di un aspetto positivo. Ma bisogna attendere per avere un'idea di quale sarà l'orientamento politico dei nuovi parlamentari.

Scontri all'aeroporto
Una notizia come quella di ieri è stata messa in ombra dai crescenti scontri a fuoco tra milizie rivali, che stanno paralizzando l'aeroporto internazionali di Tripoli, chiuso dal 13 di luglio. Il bilancio è gravissimo: 50 vittime in una settimana, decine di veicoli danneggiati, alcuni colpito dai razzi, il traffico in tilt e i passeggeri rinchiusi nello scalo da giorni per sfuggire agli scontri a fuoco. Nessuno si era fatto molte illusioni. Il cessate il fuoco proclamato appena due giorni fa non ha retto. Violenti combattimenti sono riesplosi ieri mattina allo scalo internazionale. Con un bilancio di cinque vittime, tra cui sembra due civili. A fronteggiarsi con le armi, ricorrendo anche ai razzi, sono le milizie di Misurata, che appoggiano altere milizie islamiche, e quelle di Zintan, la sanguigna città nordoccidentale. Sono proprio i bellicosi Zintani che controllano l'aeroporto dall'estate del 2011. Cosa che non piace ad altre milizie rivali, tutte desiderose di controllare un nodo così strategico. La città di Zuwara si sta preparando ad accogliere voli nazionali e internazionali, ma è uno scalo che non può competere, per capacità, con quello di Tripoli.

Le major straniere evacuano il personale
Gli scontri all'aeroporto di Tripoli sono l'ennesimo, e probabilmente non l'ultimo, grave focolaio di violenza che sta paralizzando il Paese. Dopo la francese Total e altre compagnie, in questi giorni l'italiana Eni e la spagnola Repsol, rispettivamente i primi due investitori stranieri hanno spostato i loro espatriati: l'Eni ha traferito i suoi tecnici del giacimento nordoccidentale di Mellitah sulla piattaforma offshore di Bouri, 120 chilometri dalle coste libiche, ha spiegato Husain Abu Siliana, il capo dell'operazioni del giacimento di Mellitah al quotidiano Libya Herald. La Repsol, come aveva fatto al Total, avrebbe invece evacuato lo staff via terra in Tunisia. L'appello lanciato le scorse settimane dal ministro libico degli esteri, Mohammed Abdelaziz suona come l'ennesimo campanello d'allarme: «La mancanza di protezione dei nostri giacimenti e dei porti da cui esportiamo il nostro petrolio resta un problema molto serio», aveva precisato il ministro, invocando l'aiuto della comunità internazionale. Da solo, l'ex regno di Muammar Gheddafi non è dunque in grado di disarmare le potenti milizie che da tre anni paralizzano il paese.

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