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Questo articolo è stato pubblicato il 28 luglio 2014 alle ore 20:03.
L'ultima modifica è del 28 luglio 2014 alle ore 20:17.

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(LaPresse)(LaPresse)

Israele deve essere pronto a una «lunga campagna» nella Striscia di Gaza. È il monito che ha lanciato il primo ministro dello stato ebraico, Benjamin Netanyahu, protagonista in serata di un intervento in tv dopo una nuova giornata di sangue nel territorio palestinese e nel sud di Israele. «Noi - queste le parole del premier - dobbiamo essere pronti a una lunga campagna, fino a che la nostra missione non sarà realizzata. Questa operazione non sarà conclusa fino a che non avremo neutralizzato i tunnel» che servono agli spostamenti del movimento integralista palestinese Hamas per attaccare Israele. Infine: «La comunità internazionale deve chiedere la smilitarizzazione di Gaza».

di Ugo Tramballi
Dovevano esserci le ore tranquille dell'Eid al-Fitr, la festa che conclude il mese di digiuno del Ramandan. Forse ce ne saranno altre, un'ambigua via di mezzo fra la continuazione dei combattimenti e quel cessate il fuoco più concreto, chiesto dalla comunità internazionale. Ma prima o poi Bibi Netanyahu dovrà decidere cosa fare. La scelta appena presa di andare avanti nell'operazione "Soglia di protezione", estendendola, è drammatica ma non può che essere a tempo determinato.

Alla fine il premier israeliano ha assecondato i suoi ministri più radicali ma decisivi per tenere in piedi la coalizione di governo, che vogliono continuare la guerra; e ha respinto la pesante pressione di Barack Obama che pretendeva da Israele la fine dei combattimenti a Gaza come «imperativo strategico». Questa definizione piuttosto impegnativa della tregua dà la misura di quanto il presidente americano tenga alla sua richiesta.

Lo stato maggiore israeliano aveva detto di aver bisogno di qualche giorno ancora per finire di distruggere gli oltre 30 tunnel scoperti e infliggere un danno importante alle infrastrutture militari di Hamas. Il raggiungimento di quella che i militari chiamano «deterrenza» è importante, tuttavia non garantisce che prima o poi Gaza torni ad essere un problema.

L'obiettivo era già stato raggiunto sia nella guerra del 2009 che in quella più breve del 2012: ogni volta il movimento islamico palestinese ha mantenuto intatta la sua volontà di riprendere la lotta si è riarmato. È per questo che le destre nel governo israeliano, più a destra di quanto non sia Netayahu, non si accontentano di trasformare l'operazione "Soglia di protezione" in un deterrente: vogliono una vittoria. Come in passato, apparentemente impossibile da raggiungere. Ma loro la vogliono.

«Nessuna pressione internazionale ci impedirà di operare con piena forza contro una organizzazione terroristica che invoca la nostra distruzione», aveva detto Netanyahu pochi giorni dopo l'inizio di "Soglia di protezione". Sapeva che invece sarebbe venuto il momento in cui le pressioni della diplomazia, amici compresi, non potranno essere più ignorate. Il premier israeliano, secondo gli americani, avrebbe dovuto fermare l'offensiva militare.

«Nel momento in cui lo farà – diceva la settimana scorsa un deputato del suo stesso partito Likud, dopo la prima breve tregua – il suo governo sarà finito». Ma la pressione americana è forte. Anziché sostenere la proposta egiziana, alla quale gli israeliani erano favorevoli perché ignorava alcune importanti richieste di Hamas, il segretario di Stato John Kerry ha preferito inserire nel negoziato la Turchia e il Qatar: gli unici due Paesi favorevoli al movimento islamico di Gaza.

Il messaggio americano è evidente e impossibile da ignorare. L'offensiva israeliana riprende ma è a tempo determinato ormai.

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