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Questo articolo è stato pubblicato il 29 luglio 2014 alle ore 06:38.

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NEW YORK
Come in una brutta parodia di Cenerentola, la carrozza ornata di nuove obbligazioni sulla quale l'Argentina conta di recarsi alle danze tra gli investitori sul debito sovrano potrebbe trasformarsi nella proverbiale zucca senza valore di un nuovo default. Una favola che, allo scoccare della mezzanotte di mercoledì, si fa incubo: lo spettro d'una nuova crisi finanziaria dell'Argentina può diventare drammatica realtà senza accordi in extremis tra Buenos Aires e gli hedge fund statunitensi che hanno rifiutato di offrire drastici sconti e partecipare alla ristrutturazione del debito.
Domani scade il periodo di grazia al quale ha diritto il Paese latinoamericano per completare pagamenti da 539 milioni su titoli, che saranno però possibili solo in presenza di una simile intesa dopo che la giustizia statunitense ha bloccato ogni versamento davanti ai mancati compromessi con i fondi ribelli. E appuntamenti negoziali decisivi tra le parti sono previsti a partire da oggi pomeriggio: con il conto alla rovescia ormai agli sgoccioli, una delegazione del governo argentino capitanata dal segretario alle Finanze Pablo Lopez incontrerà i rappresentanti degli hedge attraverso il mediatore Daniel Pollack, nominato dal tribunale di New York incaricato del caso e guidato dal giudice Thomas Griesa.
I duellanti giocano una partita dall'alta posta in gioco. Un secondo default in soli 13 anni - dopo lo shock da cento miliardi del primo - sarebbe un record negativo dalle conseguenze imprevedibili, per Buenos Aires e per i mercati. Recessione e messe al bando dall'accesso a capitali potrebbero perseguitare l'esecutivo del presidente Cristina Kirchner, anche se probabilmente il terremoto sarebbe meno grave della disoccupazione al 25% e delle decine di migliaia di senza casa del 2001. Mentre scosse alla fiducia potrebbero danneggiare i mercati emergenti, seppur attenuate dal fatto che il default fosse nell'aria e che le dimensioni del debito in questione siano limitate.
Il braccio di ferro appare tuttavia per ora nell'impasse. «I negoziati su una questione difficile come questa richiedono tempo», ha dichiarato il capo di staff argentino Jorge Capitanich, indicando che la delegazione latinoamericana spera di ottenere dal giudice rinvii delle scadenze. Difficili sono stati finora sicuramente i toni: Buenos Aires ha inveito contro l'ingordigia di «fondi avvoltoio» e i tribunali statunitensi corrotti, sostenendo di non avere risorse per far fronte alle loro richieste di risarcimento integrale. Gli hedge, Nml Capital di Elliott Management e Aurelius Capital che avevano rilevato per pochi soldi il vecchio debito argentino dopo la crisi, replicano che Buenos Aires mente e può pagare gli 1,33 miliardi più interessi rivendicati, in tutto 1,5 miliardi. Insistono che considereranno compromessi solo davanti a progressi nelle trattative. E che il timore di Buenos Aires di essere costretta a revisioni delle precedenti intese con gran parte dei creditori, uno swap di titoli con perdite del 70%, è infondato perché sarebbero necessarie solo in presenza di nuovi accordi volontari sul debito e non di adempimenti ordinati dal tribunale.
Nel clima di tensione «le obbligazioni argentine sono sotto pressione», ha ricordato Michael Roche di Seaport Global. «Le probabilità di un accordo appaiono estremamente basse - ha aggiunto Casey Reckman di Credit Suisse -. L'unica via d'uscita è se scatterà un rinvio». In palio, a New York, non è oggi un lieto fine da favola ma scongiurare reali e dolorosi default sulla pelle di cittadini argentini e investitori sui mercati.
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