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Questo articolo è stato pubblicato il 29 luglio 2014 alle ore 06:38.

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LONDRA. Dal nostro corrispondente
Mikhail Khodorkovskij è «contento». Dieci anni di galera con spifferi e affaccio sulle miniere di uranio dell'Estremo oriente russo devono avergli insegnato la britannica dote dell'understatement. Un hurrà, per essere eleganti, ce lo saremmo aspettato ora che la corte dell'Aja per gli arbitrati internazionali ha condannato la Russia a pagare 50 miliardi di dollari di danni, milione in più milione in meno, agli ex soci Yukos riuniti nel consorzio Gml. Al tycoon non andrà un cent. Almeno questo dice lui, precisando di aver ceduto nel 2005 le sue quote al partner Leonid Nevzlin. Eppure nel verdetto dei giudici della corte d'Olanda, oltre a un numero astronomico, si legge il riconoscimento esplicito del calvario da lui patito che, crediamo, avrebbe meritato più colorite espressioni dell'inevitabile «fantastico». Accompagnato dalla riservatezza di Khodorkovskij si chiude il capitolo centrale di un'epoca nella storia recente della Russia e se ne aprono molti altri. Sia sotto l'aspetto legale, nel caso specifico, sia sotto quello delle relazioni internazionali, vista la delicata congiuntura aperta dalla crisi dell'Ucraina fra Mosca e resto del mondo.
Non si può leggere diversamente una sentenza che sancisce quanto in tanti, da anni, dicevano: le mani su Yukos furono un'azione «politicamente motivata» da parte del governo di Mosca, ordita non «per recuperare tasse evase, ma per far fallire la società e appropriarsi degli asset». Quindi la Russia deve pagare i danni agli azionisti di maggioranza - Gml era proprietaria del 58,93% dei titoli di un gruppo che era primo per capitalizzazione di Borsa a Mosca - ingiunge la sentenza. E deve farlo entro il 15 gennaio 2015. Dopo di allora su una cifra pari al 2,5% del pil russo cominceranno a essere conteggiati anche gli interessi.
Inevitabile, dunque, che il governo che fa capo a Vladimir Putin pensi alle contromisure. La più evidente è non pagare, come è già accaduto in un paio di occasioni minori. Per evitare, però, di muovere un altro passo verso il fondo del mondo più civilizzato, la Russia cercherà di contrastare la sentenza per vie legali. «Questo è un giudizio finale - ha precisato nel corso della conferenza stampa a Londra l'avvocato Emanuel Gaillard dello studio Sherman Sterling, gongolante per una sentenza che spazza tutti gli altri casi di arbitrato internazionale con un indennizzo venti volte superiore al precedente primato registrato nel caso Dow-Kuwait - non ci può essere appello».
In realtà esistono altri sentieri legali, di procedura e non di merito, per contestare il verdetto. Serghej Lavrov, ministro degli Esteri di Mosca, lo ha detto con chiarezza. «Le istituzioni che rappresentano la Russia useranno tutte i mezzi giudiziari a tutela delle nostre posizioni. Questa non è la fine».
Al di là del valore economico, dolorosissimo anche per un gigante come la Russia, c'è un valore politico. L'illegalità di Stato della Federazione, l'assoggettamento del sistema giudiziario alla volontà del governo, escono con chiarezza senza precedenti dal verdetto, nelle stesse ore in cui le fiamme in Ucraina e l'abbattimento del jet malese decollato da Amsterdam ridanno consistenza ai timori di un risorto imperialismo russo. Non c'è legame fra gli episodi, ma una straordinaria coincidenza temporale e geografica con l'Olanda involontaria protagonista.
Sul breve però, Mosca, eviterà di pagare. Dal tono, non dalle parole usate in conferenza stampa, sembravano crederlo anche i legali di Gml. Tim Osborne, rappresentante della società che ha in Leonid Nevzlin, Platon Lebedev, Vassily Shaknovskij, Mikhail Brudno, Vladimir Dubov i maggiori "azionisti", è stato però fermo. «Questa non sarà una vittoria di Pirro», ha detto spalancando la porta alla fase due: il recupero del credito ai danni di società commerciali riconducibili al governo di Mosca. Nel mirino, per intenderci, non ci possono essere le ambasciate russe, ma ci sono certamente gli asset di Rosneft e forse anche di Gazprom. La prima è - di fatto - Yukos, la seconda ha acquisito direttamente e indirettamente beni - anche da Eni ed Enel - che facevano capo ai resti del gruppo di Khodorkovskij e poi messi all'asta.
È Rosneft, comunque, la preda più esposta alla caccia, con una serie di conseguenze del tutto imprevedibili a cominciare dagli interrogativi su Bp. Nel riassetto delle sue partecipazioni, infatti, il gruppo britannico risulta oggi essere proprietario del 20% della società di Stato russa. Impossibile dire se questa nuova condizione - e quella di molte altre imprese in rapporti con Rosneft - incrocerà le conseguenze del verdetto dell'Aja. Un verdetto destinato a non rimanere isolato: giovedì toccherà alla Corte europea per i diritti umani di Strasburgo pronunciarsi su una altro aspetto dell'infinito scontro fra i soci di Yukos e la Russia di Vladimir Putin.
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