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Questo articolo è stato pubblicato il 01 agosto 2014 alle ore 06:37.
L'ultima modifica è del 07 agosto 2014 alle ore 20:51.
NEW YORK - Default e confusione. Con i grandi mercati che, per adesso, stanno a guardare, più preoccupati di Russia e ripresa globale che di un contagio latinoamericano. L'Argentina, falliti i negoziati con i creditori ribelli negli Stati Uniti, non ha potuto pagare 539 milioni di dollari di interessi in scadenza su titoli per 13 miliardi posseduti dagli investitori che avevano invece accettato la ristrutturazione del debito dopo la prima crisi del 2001.
Questo passo l'ha spinta in "Selective default", nel rating di Standard & Poor's, aprendo sui Tango bond un nuovo e frenetico capitolo dagli esiti incerti: Buenos Aires promette ricorsi presso la Corte di Giustizia dell'Aja; le banche, argentine e statunitensi, stanno cercando di rifinire piani del settore privato; e gli analisti, da Wall Street alle piazze emergenti, si interrogano sulla possibilità che le trattative tra governo e hedge fund riprendano. L'agenzia internazionale Fitch taglia l'issuer default rating portandolo da RD a CC: il mancato pagamento dei bond rappresenta un evento di default. Una nuova udienza davanti al giudice federale Thomas Griesa è prevista già oggi.
L'ultima iniziativa a far sperare è di JP Morgan: il colosso bancario sta considerando di rilevare le obbligazioni in mano agli hedge, NML Capital di Elliott Management e Aurelius, che da anni resistono a un concambio con perdite del 70% tra vecchi e nuovi bond. In gioco sono 1,5 miliardi chiesti dai fondi, reduci da vittorie nei tribunali statunitensi che impongono a Buenos Aires di risarcirli se vuole pagare gli altri creditori. Le avance di JP Morgan, riportate dal Wall Street Journal, si affiancano a proposte degli istituti argentini di pagare gli hedge e farsi rimborsare dal governo, creando un fondo di garanzia da 250 milioni.
La soluzione discussa tra le banche potrebbe diventare la miglior carta per disinnescare rapidamente tensioni. Se finora le ripercussioni sono concentrate su piazze e titoli argentini mentre sui mercati internazionali sono contenute - il debito in questione è limitato, Buenos Aires non è al collasso e ha un ruolo molto ridimensionato sugli emerging markets - non è detta l'ultima parola, soprattutto se l'impasse continuerà. Già oggi il default può dar vita a richieste di pagamenti sempre più ingenti: la International Swaps and Derivative Association deciderà se è tale da far scattare pagamenti sui credit default swap, i derivati che agiscono da assicurazioni sul credito. E stando ad alcune stime la spirale di crisi può scatenare complessivamente domande per 29 miliardi da parte degli investitori, pari alle riserve in valuta estera della Banca centrale di Buenos Aires.
Gli scambi di accuse, nel clima nervoso post-default, sono fioccati. Il governo argentino di Cristina Kirchner ha reagito con durezza. Il capo di staff, Jorge Capitanich, ha denunciato la «precaria giustizia statunitense» nell'indicare che si rivolgerà all'Aja. Da New York il ministro dell'Economia Axel Kicillof ha attaccato «l'estorsione» dei "fondi avvoltoio". Anche se ha precisato che Buenos Aires ha presentato loro gli stessi termini già respinti, cioè il cancambio con forti perdite sposato dal 90% dei creditori. NML, guidato dal miliardario Paul Singer, ha contrattaccato che esistono «soluzioni creative ma l'Argentina ha rifiutato di prenderle seriamente e scelto il default».
Il governo argentino, che dichiarò l'iniziale default nel 2001-2002 su quasi cento miliardi scuotendo economia e mercati, ha ristrutturato il debito con accordi nel 2005 e 2010. Il 7% dei creditori ha tuttavia apertamente resistito, a cominciare dai due hedge che hanno fatto propria la sfida legale al cospetto del giudice Griesa. Il magistrato, con una decisione controversa, ha bloccato come illeciti i pagamenti di interessi sui titoli ristrutturati, già trasferiti alla Bank of New York Mellon, in mancanza di risarcimenti integrali ai ribelli. E ha negato rinvii motivati dal rischio che concessioni agli hedge obbligassero Buenos Aires a offrire a tutti termini più generosi, ordinando piuttosto trattative non-stop con un mediatore, Daniel Pollack. Il quale ha dovuto però arrendersi. Non senza un avvertimento: «Un default non è una questione tecnica. Danneggia persone reali, i cittadini argentini e i creditori».
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