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Questo articolo è stato pubblicato il 01 agosto 2014 alle ore 06:37.
Morya
Longo Mercoledì sera, poche ore prima che l'Argentina finisse in default tecnico come ormai era scontato, la Borsa di Buenos Aires chiudeva la seduta in rialzo del 6,95%. Cosa avesse da festeggiare non si sa, ma tant'è: quel balzo l'ha portata al massimo degli ultimi 20 anni. Ieri, a default avvenuto, ha perso il 6,69%. Ma la domanda resta: com'è possibile che un Paese sull'orlo del default e con un'economia in frenata abbia la Borsa sui massimi? E com'è possibile che il suo secondo crack abbia un impatto minimo su tutti i mercati finanziari?
A queste domande gli analisti danno molte riposte. C'è chi dice che i valori dei mercati azionari e obbligazionari già scontavano il default tecnico. C'è chi ricorda che l'Argentina non emette bond dal 2001, per cui sui mercati obbligazionari è una sorta di desaparecido: ha insomma un peso irrisorio finanziariamente parlando. Ma probabilmente c'è anche un altro motivo: gli investitori sono così inebriati dalla grande abbondanza di liquidità che ormai sottovalutano qualunque rischio. Non si interessano della striscia di Gaza, né della crisi ucraina, né delle evidenti bolle in giro per il globo: figuriamoci se si scompongono per un default tecnico.
Eppure il caso argentino non va sottovalutato: perché potrebbe creare un precedente. Il fatto che un gruppetto di hedge fund possa riaprire i giochi su una ristrutturazione del debito chiusa anni fa, fa sorgere una domanda: la stessa cosa potrebbe capitare in futuro ad altri Paesi? Per esempio alla Grecia, che come l'Argentina ha ristrutturato il debito?
Il problema c'è. Anche se alcuni studi legali tendono a smorzarlo, almeno per l'Europa (Grecia inclusa). Un po' perché i bond Ue dal 2013 hanno le clausole di azione collettiva (Cacs) che riducono – ma non annullano – il problema. Un po' perché le clausole cosiddette di «pari passu» dei bond, quelle cioè che hanno incastrato l'Argentina, sono solitamente inserite solo sui titoli di Stato non sottoposti alla legge nazionale. E in Europa ce ne sono pochi. Ma il problema, a livello mondiale, c'è.
m.longo@ilsole24ore.com
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