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Questo articolo è stato pubblicato il 01 agosto 2014 alle ore 15:16.
L'ultima modifica è del 01 agosto 2014 alle ore 15:35.

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La pattuglia della polizia liberiana per le vie di Monrovia (Ap)La pattuglia della polizia liberiana per le vie di Monrovia (Ap)

L'Africa muore perché si suicida, si affermava qualche anno fa guardando con scetticismo a nazioni devastate da guerre, pandemie, desertificazioni. Poi l'Africa è diventata il continente di economie emergenti baciate dagli idrocarburi, preda ambita per le sue risorse di grandi e medie potenze. Ma in Africa si continua a morire e ancora una volta per le stesse malattie conosciute, Aids, malaria, tubercolosi, e anche di Ebola, riemersa come un fantasma tenebroso e infestante.

Non esiste un vaccino, non ci sono test per le diagnosi, non c'è una terapia e mentre il grafico della febbre si impenna i malati si spengono disidratati da vomito, diarree, emorragie, con un tasso di mortalità del 90 per cento. La valle di Ebola percorsa dal fiume che sfocia nel Congo ha dato il nome al virus letale identificato qui per la prima volta nel 1976. E finora in Africa è rimasto in incubazione, per riaffiorare ciclicamente come una piaga biblica: quella in atto, dicono Medici Senza Frontiere, è la peggiore epidemia della storia. Cominciata in Guinea in gennaio si è diffusa in Liberia, Sierra Leone, con 700 vittime e qualche migliaio di casi accertati. Si isolano gli epicentri dell'epidemia, come la Sierra Leone che ha inviato i militari nei villaggi, mentre la Liberia ha sigillato le frontiere per impedire la diffusione del virus.

L'Ebola appare come una condanna senza speranza. E forse è proprio per questo che è difficile debellarla e contenerla. In Guinea, dove è cominciata la nuova epidemia, la popolazione è terrorizzata, diffidente, al punto da impedire l'ingresso nei villaggi dei medici. Oppure viene attanagliata da una disastrosa passività e si chiede perché mai farsi ricoverare se non ci sono cure efficaci. Si insinua la percezione che uscire dal villaggio significa andare incontro alla morte: così i contagiati peggiorano e diffondono il virus agli altri. Sono sentimenti e sensazioni che descriveva con partecipazione il dottor Sheikh Umar Khan, 39 anni, originario della Sierra Leone, specialista della malattia che è morto in questi giorni di febbre emorragica mentre stava sul fronte dell'Ebola, in mezzo ai suoi pazienti. Un eroe nazionale, un medico che si rifiutava di abbandonare i malati pur conoscendo perfettamente i rischi.

L'eroismo di Umar Khan deve indurre a qualche riflessione. L'Africa è l'epicentro planetario di almeno altre tre pandemie _ Aids, malaria, tubercolosi _ i cui effetti devastanti sono un inaccettabile tributo di vite umane e un potente freno allo sviluppo. La povertà, le scarse risorse umane ed economiche, insieme ai problemi endemici del Continente, rendono il quadro sempre più preoccupante: un circolo vizioso da cui sembra quasi impossibile uscire. L'esempio della malaria è eloquente: ogni anno vengono registrati circa 300 milioni di casi, il 90% nell'Africa subsahariana, con un costo stimato qualche anno fa in 12 miliardi di dollari. Anche nel caso della turbercolosi l'Africa guida queste tristi graduatorie. Così come per l'Aids, una delle principali cause di morte, con milioni di vittime, di orfani e un calo in alcuni Paesi del 30% della forza lavoro. C'è da chiedersi se è possibile restare indifferenti a un'Africa sprofondata nel declino e nelle malattie, condannata all'emigrazione, all'instabilità, all'insicurezza, alla marginalità economica. Ma si può e si deve tentare di fare uscire l'Africa dall'era della sofferenza.

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