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Questo articolo è stato pubblicato il 01 agosto 2014 alle ore 06:37.

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Per un maledetto incantesimo, lo spettro è diventato uno specchio su cui, ancora una volta, l'Argentina è costretta a rivedersi. Una "coazione a ripetere", che oscura i progressi degli ultimi dieci anni e le fa rivivere il suo passato. Anche se, dalla Fin del mundo, dice una canzone della Patagonia, si guarda agli eventi come da un binocolo al contrario.
Forse per questo il ministro dell'Economia, Axel Kicillof, ha dichiarato che l'Argentina «non è in default», dato che «non vi è alcuna cessazione di pagamenti, i fondi da destinare ai possessori di titoli sono stati regolarmente versati alla Bank of New York Mellon. Che però una sentenza di un giudice americano impedisce di distribuire». Un ragionamento che potrebbe avere una sua logica, peccato che tra gli attori di questa vicenda vi siano altri Paesi, altri mercati, altre banche non argentine, altre regole.
Axel Kicillof come Lionel Messi, ironizza un giornale argentino. Arrivati in finale, non l'hanno messa dentro. A un passo dall'accordo con i famigerati hedge fund e a pochi minuti dalla fine dei tempi supplementari con la Germania, Axel e Lionel hanno fallito.
Vince il primissimo mondo, Stati Uniti e Germania, anche quando la tifoseria stava tutta dalla parte dell'Argentina. L'insaziabile appetito degli hedge fund, i fondi avvoltoio che avevano acquistato a prezzi stracciati i titoli in default e ora chiedono un rimborso integrale (il 100% del valore facciale) aveva alienato le simpatie di tutti e rafforzato il tifo per l'Argentina. L'Organizzazione degli Stati americani, il G77, la Cina, la Francia e persino l'Fmi avevano appoggiato Buenos Aires. È andata male.
Sia chiaro, il quadro macroeconomico dell'Argentina è tutto diverso da quello del 2001, il Paese ha inanellato quasi un decennio di record, in termini di crescita economica, pur grazie ai prezzi delle materie prime agricole. L'elevata inflazione (vicina al 30%) è un problema serio ma sarebbe pretestuoso scorgere paralleli con il crack del dicembre 2001.
Ora che succederà ? Gli scenari possibili sono tre, i primi due hanno maggiori probabilità di realizzazione, il terzo è il più remoto.
1. Il dialogo tra i fondi avvoltoio e il governo di Buenos Aires non si è mai interrotto e, secondo indiscrezioni, è stata la scarsa abilità negoziale di Kicillof a far saltare il tavolo delle trattative. Ecco perché l'ipotesi più accreditata tra gli analisti è quella di un accordo a breve termine, da siglare nei primi giorni del 2015. Barbara Giani, analista di JCI Capital Ltd, prevede che Buenos Aires attenda il 31 dicembre 2014, data in cui scadrà la clausola Rufo, (equità di trattamento per tutti coloro che aderiscono al concambio). Da quel momento sarebbe scongiurata l'ipotesi che tutti i creditori avanzino ulteriori pretese di rimborsi superiori al 30 per cento. Con il nuovo anno, l'Argentina potrebbe riprendere a pagare le cedole dei titoli ristrutturati. Il rischio di questo scenario - secondo Giani - è che comunque, oltre a 1,5 miliardi di dollari da pagare ai fondi avvoltoio, «si sollevino richieste da parte di tutti gli holdout che non aderirono alla ristrutturazione e secondo il governo argentino la somma potrebbe salire fino a 15-20 miliardi di dollari».
2. Un secondo scenario, prefigurato già alcuni giorni fa da Enzo Farulla, analista finanziario italiano residente a Buenos Aires, è che qualche gruppo bancario internazionale si faccia avanti. E infatti proprio ieri la banca americana JP Morgan, secondo alcune indiscrezioni, stava trattando l'acquisto dei bond nelle mani degli holdout. Non è l'unica perché anche Citigroup pare sia interessata. Il capo gabinetto del governo argentino, Jorge Capitanovich, conferma che l'esecutivo sta trattando con interlocutori privati il possibile acquisto dei bond.
3. Il terzo scenario è il più cupo ma anche il meno probabile. L'incertezza potrebbe spingere gli argentini a ritirare i risparmi dalle banche generando un clima di panico, anticamera del caos del 2001, quando la crisi finanziaria è diventata politica e sociale. Da allora, però, i risparmiatori argentini non lasciano neppur un dollaro nelle banche di casa. Li tengono sotto il materasso. Letteralmente.
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