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Questo articolo è stato pubblicato il 01 agosto 2014 alle ore 06:36.
L'ultima modifica è del 01 agosto 2014 alle ore 07:21.

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Dall'Argentina raramente arrivano buone notizie. In un decennio in cui l'economia mondiale sembra aver sconfitto l'inflazione, l'Argentina è riuscita a riesumarla. Non potendo domarla la falsifica, alterando le statistiche. L'ultima cattiva notizia è l'ennesimo default sul debito che colpisce gli stessi detentori che avevano subito il precedente del 2001 e accettato i nuovi titoli ristrutturati.

Si è detto che è il secondo default in 13 anni. Ma la vera conta è peggiore. Da quando ha conquistato l'indipendenza nel 1816 l'Argentina ha fatto ben sette default, e da allora ha passato il 33% degli anni in default o in ristrutturazione del proprio debito. Un record condiviso con parecchie delle altre economie dell'America del Sud che vantano il 77% dei default mondiali.
L'Argentina ci è vicina e i suoi default ci toccano. Centinaia di migliaia di risparmiatori italiani che avevano dato fiducia al governo argentino rimasero scottati dal default del 2001, subendo perdite significative. La memoria di quella esperienza ha probabilmente condizionato le loro scelte successive e li ha resi più prudenti nell'affidare i risparmi a qualunque governo.
Questo secondo default, se anche non dovesse causare perdite dirette per i risparmiatori italiani, può, riacutizzando la vecchia ferita, portare un altro fremito di paura e scuotere ulteriormente quella poca fiducia nell'investimento che oramai da un lustro caratterizza i nostri risparmiatori. E che invariabilmente si riflette in un più elevato premio per il rischio che a sua volta innalza il costo del capitale, comprime gli investimenti, rallenta la (magrissima) crescita. E visto dal versante del nostro debito pubblico, aggiunge un ulteriore granello alla sua precaria sostenibilità.

L'Argentina per certi versi ci assomiglia. Molti tratti della sua politica ci ricordano la nostra. Il cinismo dei suoi leader, la scarsa memoria degli errori commessi, la tendenza a negare l'evidenza e a distorcere la verità, il rifiuto dell'analisi a favore degli argomenti di comodo a sostegno di tesi precostituite. Le accuse di estorsione del ministro dell'Economia Axel Kicillof contro Elliott Management - l'hedge fund che ha portato l'Argentina in tribunale forzando il default - è solo una conferma di questo stile di gestione politica.
L'Argentina ci fa paura. È uno dei pochi Paesi che da una posizione di leadership economica negli anni Trenta è riuscito a regredire inesorabilmente, impoverendosi economicamente e culturalmente. Ogni volta che pensiamo all'Argentina pensiamo al declino dell'Italia nell'ultimo ventennio e alle scarse odierne prospettive, avviluppati in problemi che assomigliano via più a una matassa della quale nessuno sembra più vedere il capo.

La superficialità con cui i governi di Buenos Aires hanno trattato il tema del debito e la scarsa volontà politica di onorare gli impegni presi riportano alla mente la riluttanza dei nostri a governare l'accumulo di debito nella sola maniera possibile per evitare il default: disciplinare la spesa.
Il ridimensionamento (licenziamento?) di Carlo Cottarelli, il commissario alla spending review, sicuramente l'italiano che più di chiunque altro può vantare una competenza unica nel disegnare un piano di contrazione della spesa pubblica conferma che su questo fronte purtroppo forse ben poco è cambiato. Come l'Argentina anche noi continuiamo a girare intorno ai problemi, usando le competenze delle persone solo per mostrare che qualcosa si sta facendo, ma pronti a rimandarle lì
da dove provengono quando quelle persone le loro competenze pretendono di usarle.

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