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Questo articolo è stato pubblicato il 06 agosto 2014 alle ore 17:50.
L'ultima modifica è del 06 agosto 2014 alle ore 18:47.
Rottamare la dottrina marxista-leninista per abbracciare la democrazia e liberarsi della soffocante tutela del "cugino" cinese. Qualcosa di imprevedibile comincia a muoversi in Vietnam: in una lettera aperta datata 28 luglio, 61 prominenti membri del Partito comunista (ex ambasciatori, ex ministri...) hanno scritto nero su bianco un appello a voltare drasticamente pagina e alleati, che suona al tempo stesso come una condanna senza riserve alla leadership del regime.
La lettera porta alla luce la crescente frustrazione di ampi settori del partito per la debolezza mostrata dal governo nella disputa con Pechino sulle isole Paracelso. Il 2 maggio, a pochi giorni dalla visita del presidente statunitense Barack Obama nella regione, la Cina aveva inviato la sua China national offshore oil corporation (Cnooc) a installare una piattaforma petrolifera al largo dalle coste del Vietnam, scortata da un'ottantina di vascelli.
Obama aveva appena assicurato sostegno alle rivendicazioni giapponesi sulle isole Senkaku nella contesa proprio con la Cina, che Pechino correva a piantare la propria bandierina ben dentro quella che Hanoi considera zona economica esclusiva. Tanto per testare che tipo di risposta potesse attendersi dai Paesi della regione e da Washington di fronte a prese di posizione sempre più spregiudicate.
La vittima non era stata scelta a caso. La diatriba marittima ha già causato due conflitti tra Vietnam e Cina, nel 1974 e nel 1988. Tra il 17 febbraio e il 16 marzo del 1979, i due Paesi si sono scontrati, mentre Hanoi era in guerra con la Cambogia. Nel 2013, però, le relazioni erano molto migliorate. Pechino, pertanto, si aspettava attacchi retorici, disordini di piazza, ma non molto altro. Il Vietnam dipende fortemente dai capitali cinesi e, a differenza di Filippine, Corea del Sud e Giappone, non ha trattati che vincolano gli Usa a intervenire. Un rischio che sembrava quindi calcolato.
L'impressionante trasformazione che nel giro di venti anni ha reso il Paese una meta ambita per gli investimenti esteri e ha prodotto un sistema economico fortemente orientato al mercato (una battuta vuole che di comunista in Vietnam sia rimasta ormai solo la bandiera rossa), potrebbe però averne cambiato in profondità anche gli equilibri sociali e politici. Tanto per cominciare, l'opposizione al regime, pur interna al regime stesso, non ha paura di uscire allo scoperto.
L'immagine del Partito comunista - spiega Tuong Lai, un consulente dell'ex premier Vo Van Kiet - è stata danneggiata dalla sua corruzione, dalle politiche sbagliate e dall'aver «accettato di inginocchiarsi di fronte alle pressioni di Pechino». Per questo, rincara la dose un altro firmatario della lettera, «è davvero ora che il Partito intraprenda un profondo cambiamento, si liberi del marxismo-leninismo ed esca dall'orbita cinese».
La dirigenza del Partito finora si rifiuta perfino di riconoscere l'esistenza della lettera. Una frattura tra Hanoi e Pechino aprirebbe spazi d'influenza inaspettati per Washington, ma perdere il Vietnam avrebbe conseguenze strategiche troppo pesanti per la Cina perché questo possa avvenire senza conseguenze. In una fase geopolitica già scossa da troppe fibrillazioni.
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