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Questo articolo è stato pubblicato il 10 agosto 2014 alle ore 08:12.
L'ultima modifica è del 10 agosto 2014 alle ore 13:58.

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NEW YORK
L'operazione militare-umanitaria americana in Iraq per fermare gli estremisti dell'Isil cresce e si allarga, consentendo controffensive dei miliziani curdi Peshmerga e promettendo il salvataggio di migliaia di sfollati intrappolati dall'avanzata delle forze sunnite dello Stato Islamico. E Barack Obama, pur escludendo l'invio di truppe, ha affermato che potrebbe «proseguire per mesi», per scacciare lo spettro del genocidio e aiutare Baghdad a dar vita a un nuovo governo in grado di tenere testa agli insorti.
L'avanzata dell'Isil, ha denunciato Obama parlando dalla Casa Bianca, «è stata più rapida» di quanto immaginato da tutti, fuori e dentro l'Iraq. Le forze statunitensi sono oggi posizionate per aiutare a «spezzare l'assedio» dei profughi rifugiatisi sul monte Sinjar, uno degli epicentri della crisi. E i bombardamenti americani contro gli estremisti «se necessario» continueranno, ha continuato, precisando che non esistono «scadenze» per l'intervento aereo e che l'impegno può essere «di lungo periodo». Almeno tre attacchi di velivoli statunitensi sono stati seguiti ieri da ripetuti lanci di aiuti ai profughi. E hanno distrutto armi ed equipaggiamenti dei miliziani.
Obama ha poi lanciato un appello agli alleati perché si affianchino sempre più alla missione umanitaria. E sopratutto agli iracheni perché non sprechino l'occasione, trovino l'unità necessaria a fronteggiare e sconfiggere gli estremisti. L'azione militare americana, ha infatti ammonito, può dare a Baghdad il tempo per superare le divisioni, ma non risolve i problemi. Anzi, Obama si è spinto a sostenere che neppure una presenza di soldati statunitensi avrebbe impedito l'attuale crisi.
Il presidente ha riaffermato ragioni e obiettivi dell'intervento anche nel discorso radiofonico alla nazione del sabato. Rappresenta anzitutto «un'iniziativa umanitaria» perché gli sfollati «stavano morendo di fame. I raid consentono alle forze irachene di spezzare l'assedio e salvare queste famiglie». Obama ha però anche qui sottolineato i chiari limiti della sua azione: gli Stati Uniti «non possono intervenire ovunque vi sia una crisi». Quando «si verifica una situazione simile a questa, in cui innocenti si trovano di fronte alla minaccia di essere massacrati, non guardiamo dall'altra parte. Agiamo. Ci mettiamo alla guida». Questo non significa una nuova guerra in Iraq: «Non lo permetterò - ha assicurato - gli americani non torneranno a combattere in Iraq e non c'è alcuna soluzione militare americana alla crisi del Paese».
L'urgenza di intervenire era diventata chiara anche al di là della tragedia umanitaria: secondo ricostruzioni del Wall Street Journal, Obama ha preso la decisione durante un incontro di cinque minuti in auto con il capo degli Stati maggiori riuniti, il generale Martin Dempsey, mercoledì sera, al ritorno dal Summit sull'Africa. Dempsey ha riferito la drammatica piega presa dagli eventi, con gli estremisti che avevano messo in rotta le forze curde e minacciavano la capitale regionale Erbil, dove si trovano diplomatici e consiglieri militari statunitensi. Il New York Times ha confermato che Washington temeva una «nuova Bengasi», con personale americano ucciso dagli estremisti.
Sul palcoscenico internazionale, ieri il presidente ha avuto colloqui telefonici con il primo ministro britannico David Cameron e il presidente francese François Hollande, che hanno appoggiato le azioni statunitensi. L'Italia, attraverso il ministro degli Esteri Federica Mogherini, ha espresso sostegno e impegno a soccorsi umanitari. A sottolineare l'allargamento in corso della coalizione, due aerei inglesi carichi di aiuti per 75mila persone sono già partiti alla volta dell'Iraq. I beni saranno paracadutati sul monte Sinjar, nel nordovest del Paese, dove sono intrappolate decine di migliaia di iracheni Yazidi.
Sul campo, intanto, i Peshmerga hanno dato segni di riscossa sotto la copertura aerea americana: hanno annunciato di aver aperto una strada verso Sinjar, salvando oltre cinquemila Yazidi, minoranza curda perseguitata dall'Isil. Ma secondo notizie diffuse da un attivista, circa 4mila yazidi sarebbero in pericolo di vita, circondati dai miliziani islamici che minacciano di ucciderli se non si convertiranno.
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I YAZIDI
Nel mirino degli estremisti
È la comunità dei yazidi, dopo quella cristiana, curda e sciita, a essere finita nel mirino dello Stato islamico, i cui miliziani osservano un Islam sunnita di stampo fondamentalista.
Setta che combina l'Islam e il Zoroastrismo, quella degli yazidi conta circa 700mila esponenti al mondo. La maggiore presenza di yazidi si concentra nella provincia di Niniveh in Iraq, dove si stima vivessero circa 500mila esponenti di questa comunità prima dell'avanzata dello Stato islamico che ha portato almeno 200mila persone, tra cui 40mila yazidi, ad abbandonare le città di Zumar e Sinjar sotto la minaccia di morte a meno di una conversione all'Islam sunnita. Etnicamente, i yazidi sono curdi.

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